Paolo Angioni, colonnello e Cavaliere

Intervista





  “Prima dell’incidente in Polonia, tralasciando quelli conosciuti da ragazzo, avevo lavorato con due maestri che avevano lasciato il segno: l’allora capitano Piero d’Inzeo per il salto ostacoli a Passo Corese e il marchese Fabio Mangilli per il completo ai Pratoni del Vivaro. I due maestri erano agli antipodi …”






di  Maria Cristina Magri


Immaginate di aver cominciato a montare a dieci anni in una delle scuole più classicamente caprilliane dell’Italia del dopoguerra e di essere guidati da genitori competenti ed appassionati di equitazione; di vincere a diciassette anni sia il campionato allievi di concorso di salto ostacoli sia quello di completo; di avere come Maestro un uomo di cavalli raffinato come il generale Francesco Amalfi, allievo diretto di Caprilli; di continuare una carriera sportiva piena di successi e soddisfazioni agonistiche, diventare ufficiale di cavalleria e poter lavorare dal 1962 in quel paradiso per cavalli e per uomini di cavalli che era il Centro Preolimpionico Ippico Militare di Passo Corese in provincia di Rieti. Di essere poi chiamato da un tecnico di valore come il marchese Mangilli a far parte della squadra che si prepara per l’Olimpiade di Tokyo, di partecipare a quell’Olimpiade come componente della squadra italiana di Concorso Completo di Equitazione e di vincere la medaglia d’oro di squadra.
Poi immaginate anche di cadere in modo rovinoso durante un concorso di salto ostacoli in Polonia nel ’66, di essere schiacciati sotto il cavallo, di rimanere in coma tra la vita e la morte e quindi riprendervi dopo lunga convalescenza.
Cosa fareste, a questo punto? Alcuni terminerebbero la carriera equestre, paghi della sequenza positiva fino a quel punto collezionata. Altri ricomincerebbero a montare esattamente come prima, come se l’incidente non fosse mai avvenuto.
Il colonnello Angioni, invece, confessa che grazie a questo episodio ha avuto modo di pensare alla propria precedente attività in sella, all’Equitazione senza aggettivi (e non solo allo sport equestre), al lavoro dei cavalli e quindi di …cominciare a migliorarsi.
Colonnello, come è cambiato il Suo modo di montare dopo quel “periodo di riflessione”? Qual è stata la parabola di questa evoluzione?
“Prima dell’incidente in Polonia, tralasciando quelli conosciuti da ragazzo, avevo lavorato con due maestri che avevano lasciato il segno: l’allora capitano Piero d’Inzeo per il salto ostacoli a Passo Corese e il marchese Fabio Mangilli per il completo ai Pratoni del Vivaro. I due maestri erano agli antipodi, e per carattere e per tecnica di lavoro. Per dirla in breve, l’allora capitano Piero d’Inzeo insegnava in funzione del salto ostacoli a tendere il cavallo sulla mano come se fosse una freccia pronta a spiccare il volo spinta dalla corda tesa dall’arco. Provocare l’impulso, la volontà di andare in avanti con energia e senza incertezze davanti a qualsivoglia ostacolo, era la grande lezione di Piero d’Inzeo.
Fabio Mangilli, in una calma quasi olimpica, lasciava all’impulso naturale del cavallo, nella libertà assoluta dell’incollatura e della bocca, la soluzione d’ogni problema nell’affrontare l’ostacolo. L’impulso derivava dallo stare bene fisicamente e psicologicamente, soprattutto dall’allenamento. Riassumendo ancor di più: Piero d’Inzeo era contenere, Fabio Mangilli lasciare. Per un giovane cavaliere montare e lavorare i cavalli costretto tra le due opposte lezioni non era semplice. La convalescenza dopo l’incidente del luglio ‘66 mi ha dato modo di riflettere. Il desiderio di tornare in sella cresceva, e meditavo sul lavoro, sui cavalli che avevo fino ad allora montato. Ancora non avevo studiato le opere dei maestri. Ero guidato soprattutto dal mio istinto che si appoggiava sull’esperienza e su quello che avevo visto e recepito. Ricordare di aver montato in un modo (d’Inzeo) e nell’altro (Mangilli) produceva sensazioni forti che risvegliavano la mia memoria di cavaliere. Inconsapevolmente, cominciai a sentire quello che desideravo mettere in opera tornando in sella. A novembre ripresi servizio al Ce.P.I.M. iniziando a montare due cavalli irlandesi, Little Sky e Dawns.
Uscivo sulle colline di Montemaggiore accompagnato dal mio “uomo di scuderia”, Ezio Tranquilli, un sabino quarantaduenne prezioso e fedele, e trottavamo come minimo per due ore, salite e discese, incollature basse e distese. Mi sorprendevo che il cavallo, anche in discesa, abbassasse la testa per avanzare i posteriori e frenare. Avevo sempre creduto che l’alleggerimento dell’avantreno dipendesse dall’elevazione dell’incollatura. Non avevo ancora studiato né letto de Sévy. Non sapevo razionalmente che era invece l’abbassamento dell’incollatura a favorire l’avanzamento pronunciato dei posteriori, ma lo sentivo e lavoravo conseguentemente. Intanto continuavo l’attività di cavaliere di concorso completo lavorando, agli ordini del marchese Mangilli, i cavalli della FISE. Venivo nominato P.O. per l’olimpiade di Città del Messico nella squadra di concorso completo. Ma la mia passione equestre era rappresentata dal lavoro con Dawns, che oggi potrei definire il mio certificato, il “brevetto vivente” di cavaliere, come scrive il generale l’Hotte.




Qual è stata la più bella cosa che ha fatto, in equitazione?
Difficile scegliere. Nell'ordine direi, nello sport equestre: la preparazione di Dawns nel 1967-'68; la prova di fondo dell'olimpiade di Tokyo nel 1964; la preparazione di O'Rosy nel 1969, dopo che mi era stato tolto, inspiegabilmente, Dawns. Nell'equitazione: il lavoro svolto a Berna con Henry Chammartin nel 1969-'70, quello svolto al Cadre Noir all'inizio del 1976.
Il risultato che più le ha dato in soddisfazione personale?
La scoperta dello studio, della ricerca, e i risultati applicati al montare a cavallo quotidiano, al lavoro dei cavalli. E, contemporaneamente, l'esperienza fatta in sella che fa da filtro o da lente d'ingrandimento quando leggo e studio.
Quale è la differenza tra i maestri di ieri e quelli di oggi?
Bisogna distinguere. Ma è forse più facile dire cosa hanno in comune: mi pare – non è un appunto – che la maggior parte dei maestri italiani sia "di ieri" che "di oggi", maestri di grande sensibilità in sella, insegnava per esperienza personale privandosi degli apporti fondamentali dello studio, proprio studio a tavolino, della tecnica equestre, della fisiologia, della psiche e del movimento del cavallo. Era, ed è, una grave della lacuna. Mi riferisco a maestri, non agli attuali addetti all’insegnamento “ufficiale”.
Quanto ha influito sull'equitazione il sistema a "premi per risultato" che è il sistema delle Federazioni sportive dipendenti dal CONI che vengono, appunto, premiate per i risultati agonistici ottenuti?
Sui progressi dell'equitazione, intesa come montare bene, artisticamente a cavallo, e dello sport equestre, cioè competizione con il cavallo, questo tipo di premio non ha mai, in nessun tempo, avuto effetti. Soltanto la passione, l'amore per l'equitazione, l'interesse per la ricerca pura, il desiderio di vedere affermate le proprie teorie, il proprio insegnamento (si veda per esempio, per limitarmi all’Ottocento, Baucher, Steinbrecht, Caprilli), sono stati la ragione dei progressi e dei miglioramenti in equitazione. Nessun premio in denaro o in oggetti può valere la forza della passione. Anzi, il premio per il risultato uccide l'interesse per la ricerca, per lo studio, per l'applicazione generosa e indipendente all’equitazione senza fini commerciali.
Cosa desidererebbe esistesse per un giovane cavaliere appassionato che volesse dedicarsi al salto ostacoli, o al completo o al "dressage"?
Vorrei una scuola, un centro, un ente, quale sia il suo nome, che si occupasse seriamente di insegnamento e di quella che oggi viene chiamata "formazione", che una volta si chiamava educazione equestre. L'insegnamento si fonda su due elementi principali: chi insegna e che cosa insegna. Terzo elemento il cavallo, che dev'essere addestrato, o dressé, come dicono i “competenti” nostrani. A cavallo ci sono stati maestri che anche se non parlavano, insegnavano, perché l'esempio del modo in cui si esegue è stimolante e porta, prima o poi, a un risultato. Vedere, per esempio, montare in esercizio sugli ostacoli Piero d'Inzeo era di per sé una bella lezione. Ma quello che in realtà faceva con i suoi aiuti, o meglio con la sua sensibilità trasmessa dagli aiuti, non si poteva vedere. E come copiare quello che egli percepiva del cavallo che montava e quello che la sua sensibilità trasmetteva al cavallo? Non c'era modo. L’unico aiuto in questo poteva essere il cavallo. Il cavallo che il maestro montava e che passava all'allievo era un cumulo di sensazioni. Bisognava saperle cogliere immediatamente, perché potevano svanire in un batter d'occhio. Due tempi di passo e tutto poteva sfumare! Oppure c'era il tempo perché alcune passassero nella sensibilità dell'allievo che allora poteva anche riuscire a conservare quello stato di grazia e prolungarlo. Voleva dire imparare. Si trattava dell'allievo ideale. Ma anche del cavallo ideale: di un cavallo ben messo moralmente e fisicamente, due stati che, nei cavalli sensibili, di sangue, fini, sono strettamente collegati. Insomma, come si può vedere, si tratta di una faccenda, quella dell'insegnamento equestre, molto complicata.
Lei è uno dei pochi veri cavalieri italiani che si preoccupa di far conoscere, oltre alla tecnica, anche la storia dell’Equitazione.
Oggi, finita la competizione, ridotto anche il montare a cavallo, mi interessa lo studio. Passo le mie giornate a leggere, a studiare, a tradurre, a scrivere. Trasmettere e far conoscere quello che mi è stato insegnato, quello che ho imparato ascoltando. Osservando, studiando o per mia esperienza personale, gli episodi che mi sembrano interessanti per far rivivere un passato (i suoi personaggi, i cavalli, episodi) che non è più, mi pare, più che un compito, un dovere. E' un piccolo capitale che si dovrebbe lasciare in eredità. Purtroppo i grandi cavalieri italiani del passato hanno lasciato poco o nulla di permanente, cioè di scritto. L'insegnamento orale che hanno diffuso se n'è andato, scordato, non fissato. Se penso che un cavaliere come Tommaso Lequio di Assaba, si dice "il più grande", non ha lasciato una sola riga a testimonianza di quel che faceva in sella e di come montava, mi viene una sorta di rammarico e anche di rabbia. D'altra parte, se penso che ho trascorso ore e ore, quasi tutti i giorni per almeno quattro anni, quando ero ventenne, a fianco del generale Amalfi e non gli ho mai posto questa semplice domanda: "Com'era la sua giornata quando seguiva il corso diretto da Caprilli nel 1904?" sono preso non dal rammarico, ma da una forte rabbia contro me stesso.

Possiamo immaginare tutte le domande che il colonnello Angioni vorrebbe fare al suo vecchio maestro, tutte le cose preziose che avrebbe voluto salvare dal baule buio dei tesori dimenticati. Che somiglino un po’ alle stesse che vorremmo ancora fare a lui, per rubargli altri ricordi?