Anno 4 - N. 12/ 2005


Un naturalismo “metafisico” contemporaneo

Alla scoperta del "mairanismo"

Nei dipinti le emozioni, la storia e i luoghi, rimangono vivi e si ricompongono in un risultato decisamente poetico che tocca la nostra sensibilità più profonda

di Giuliano Tessera



Il "Cappello dell'Ottagono" della galleria Vittorio Emanuele II, Milano FLAVIO MAIRANI


Il critico d’arte e amico Mario Monteverdi, osservava Flavio tutto intento a dipingere, con la consueta maestria, un paesaggio lacustre: un bacino d’acqua, circondato da monti, sul quale una coppia di cigni, regalmente, scivolava.
Ma era l’acqua l’elemento che più lo affascinava, più dei contorni, del paesaggio, dei candidi pennuti che, in certo senso “disturbavano” quell’elemento naturale. Bastarono poche parole, un rapido suggerimento perché Flavio Mairani cogliesse ciò che l’amico intendeva.
Via i cigni quindi, via lo sfondo e il paesaggio: "liberare" l'acqua con tutte le sue trasparenze, la sua purezza.
Si trattava di “purificare” gli elementi naturali da ogni intrusione, di penetrare anzi ancor più nella materia per coglierne la vita più profonda. Stava nascendo uno stile nuovo, un modo di dipingere e interpretare la natura personalissimo, dove le tecniche, per altro antiche, di produzione dei colori, potevano esaltare i contenuti: il “mairanismo” stava per prendere corpo e vita.
“Come, sopra i maestri, tu dèi ritrarre sempre del naturale con continuo uxo” recita il capitolo XXVIII ne “Il libro dell’arte”, scritto alla fine del XIV secolo, di Cennino Cennini(1) (nota 1: Cennino Cennini, “Il libro dell’arte”, Neri Pozza editore, Vicenza 1982) ; “Attendi, che la più perfetta guida che possa avere e migliore timone si è la trionfal porta del ritrarre de naturale”. “L’arte”, dice Licisco Magagnato nella prefazione all ‘opera citata, “è dunque un equilibrio tra l’applicare uno stile e l’affidarsi all’osservazione diretta, tra il profittare del maestro e di rifiutare l’imitazione manieristica..”, come Giotto che “rimutò l’arte del dipingere di greco in latino, e ridusse al moderno”.
Flavio, forse, aspettava da tempo questa sollecitazione. Aveva, da sempre, “la mano”, la tecnica, il disegno, frutto non solo degli studi accademici e, probabilmente anche dell’atmosfera che lo aveva circondato, innanzitutto, nella famiglia. Dal padre, Andrea (1886-1970), degno erede del paesaggio e della veduta della tradizione lombarda, dal fratello Alvaro (1913-1997), emozionante acquerellista, ma anche straordinario illustratore, conosciuto da tutti per “L’intrepido”, “Grand Hotel”, “Domenica del Corriere” e così via, Flavio ha tratto l’importanza del saper riprendere, reinterpretare, scandagliare la natura e farla rivivere nei suoi aspetti più segreti. Ecco che allora le sue tempere su tavola, come nella pittura medievale, unite alla sua “lenticolare” analisi della realtà naturale, permettono di definirlo come “moderno pittore all’antica”. Nelle sue opere, caratterizzate da aspetti in verità noti del mondo naturale, appunto, ma di fatto sconosciuti come crepe, cortecce, radici, ciottoli, veli d’acqua, muri sbrecciati, scorci di cielo mai visti… che tutti vorremmo vedere, è presentata la materia, scavata all’interno con un oggettivismo ai limiti del surreale, con indubbi elementi metafisici. Non si può, per altro, non amare questa natura e, comunque venirne colpiti e coinvolti.
Prendono vita così, via via, “Il ceppo eroso”, “Le crepe nel muro (1969), “Ruderi barbarici” (1977), “Le rocce del torrente”(1977), solo per citarne alcuni, nel contesto di una produzione eccezionalmente ampia e articolata e dove, accanto alle tempere, ben si collocano acquarelli, olii, litografie.