Anno 5 - N. 13/ 2006


“Parigi val bene una messa”

Un re, un gesuita e la tomba del Cuore

Qualche nota sui difficili e tormentati rapporti fra Enrico IV e la compagnia di Gesù

di Alvaro Vaccarella



Enrico IV

Anonimo

Collezione privata

I più inclini all’orrore possono ricordarlo per la notte di San Bartolomeo (24 agosto 1572), quando furono trucidati migliaia di Ugonotti il giorno dopo il suo primo matrimonio (secondo alcuni la strage fu organizzata proprio per colpire le centinaia di personalità di primo piano del mondo protestante che erano intervenute alla festa nunziale) con Margherita di Valois, figlia di Caterina de’ Medici. Lui scampò al massacro, ma gli sponsali diventarono, sulla bocca del popolo, le nozze scarlatte, a sottolineare il colore del sangue versato. I più dotti potrebbero fare riferimento alle sue seconde nozze, con Maria de’ Medici, celebrate per procura il 6 ottobre 1600 a Firenze. In tale occasione ebbe luogo la rappresentazione dell’Euridice musicata da Ottavio Rinuccini, su testo di Jacopo Peri, entrambi membri della Camerata dei Bardi (di cui faceva parte anche Vincenzo Galilei, compositore e interprete di musica per liuto, padre del ben più celebre Galileo), considerata la prima rappresentazione assoluta di un’opera lirica: dagli intermedii si era finalmente giunti all’opera completa. Il successo fu straordinario.
I più attenti al costume possono ricordarlo per le sostanziali riforme da lui introdotte nei banchetti ufficiali: l’uso del tovagliolo, che veniva cambiato ad ogni portata, ed evitava che i commensali si asciugassero bocca e mani nella tovaglia comune, e l’utilizzo della forchetta, suggeritogli dalla seconda moglie, che aveva importato un’usanza italiana. I più maliziosi possono ricordarlo come il Vert-galante, appellativo in cui galante sta piuttosto ad indicare l’aggettivo lussurioso, come ben potrebbero testimoniare Diana di Gramont (“la bella Corisanda”), Gabriella d’Estrées, Enrichetta d’Entragues e Carlotta di Montmorency, alcune delle sue più celebri favorite. I più seriosi cultori di storia non esiteranno a riferirsi a lui come il monarca che, convertendosi al cattolicesimo pronunciò la celebre frase Parigi val bene una messa.
I più colti potrebbero ricordarlo per una celebre asserzione di Voltaire: “Se Enrico non fosse stato il più bravo principe del suo tempo, il più clemente, il più retto, il più onesto, il suo regno sarebbe andato in rovina. Era necessario un principe che sapesse fare la guerra e la pace, che conoscesse tutte le ferite del suo Stato e i loro rimedi; che sapesse badare alle grandi e alle piccole cose, che sapesse riformare tutto e fare tutto”.
Stiamo parlando di Enrico IV, una delle personalità di maggior rilievo della storia moderna. In questa sede mi limiterò a ricordare alcuni aspetti della sua vita che presentano elementi non privi di interesse per chi ama ricercare frammenti di conoscenza che possano contribuire alla costruzione di quella storia dell’idea di cuore che già dalle pagine di questa Rivista ho avuto modo di proporre, seppure in ordine sparso.
Senza pretesa alcuna di scriverne in questa sede una storia esaustiva, giova ricordare che, salito al potere al termine della guerra dei tre Enrichi (gli altri due erano Enrico III, l’ultimo dei Valois ed Enrico di Guisa, campione dei cattolici), l’ugonotto Enrico di Navarra (la sua formazione religiosa venne dalla madre Giovanna d’Albret, di stretta osservanza calvinista) abbracciò il cattolicesimo e fu incoronato a Parigi nel 1593, primo sovrano della casata dei Borbone ad ascendere al trono di Francia. Un anno dopo un tale Jean Chastel attentò alla sua vita. Dal momento che il giovane mancato regicida aveva studiato presso il collegio parigino di Clermont, condotto dalla Compagnia di Gesù, l’ordine religioso fu accusato di esserne l’ispiratore e il mandante. In quello stesso 1594 un editto del Parlamento di Parigi bandì i Gesuiti dall’intero regno di Francia. Vale dunque la pena soffermarsi sul rapporto fra il re di Francia e i Gesuiti. Fondata nel 1540 dallo spagnolo Ignazio di Loyola, la Compagnia di Gesù contava già nel 1580 il rilevante numero di 144 collegi, dei quali 14 su territorio d’oltralpe.
Padre Pierre Coton tuttavia rimase a Parigi, dal momento che l’editto di espulsione veniva applicato con maggiore attenzione più nella confisca dei beni ecclesiali che non sulle persone fisiche, e mantenne i contatti con la corte. Alcune notizie su questo giovane gesuita (era nato nel 1564 e all’epoca del bando aveva 30 anni) possono aiutarci a conoscerne meglio la figura. Predicatore assai dotato, fu notato dal Maresciallo Lesdiguieres, che lo presentò a corte. Uno degli aneddoti che meglio possono farci capire quale ne fosse il carattere e l’autorevolezza ci viene riferito da un autore particolarmente famoso. Alla fine del ‘500 era assai dibattuto il tema se i sacerdoti potessero, e in alcuni casi dovessero, rivelare ciò che avevano appreso durante la confessione. La risposta del gesuita Coton a Enrico IV che lo interrogava sull’argomento durerà più dell’ordine dei Gesuiti: “Rivelereste la confessione di un uomo risoluto ad assassinarmi?” - “No, ma mi metterei tra voi e lui.”. La citazione è tratta dalla voce Carattere del Dizionario filosofico di Voltaire e ci dà conto del carattere e dell’autorevolezza del gesuita. Prima di stabilirsi a Corte e assumere il ruolo di confessore del Re (la nomina ebbe luogo nel 1608) il religioso si era impegnato per favorire un accordo fra Francia e Spagna, ed era stato particolarmente attivo nel seguire, incoraggiare e sostenere i padri missionari che partivano per destinazioni lontanissime, dal Quebec alla Cina. Secondo un’informazione riportata da Filippo Mignini su uno degli studi introduttivi pubblicati sul catalogo Mazzotta della mostra che ha avuto luogo a Macerata, intitolata. “Padre Matteo Ricci. L’Europa alla corte dei Ming” così si svolsero gli ultimi istanti della vita del religioso che evangelizzò la Cina: Con il sorriso del Budda morente sulle labbra e con il pensiero rivolto al confratello Pierre Coton, che aveva riportato al cattolicesimo Enrico IV di Francia e ne era divenuto confessore, Xitai Ricci si spegneva l’11 maggio del 1610, alle sette di sera. Un’ultima notazione completa il breve ritratto di questa figura di predicatore e confessore. Secondo il Dizionario Larousse dei modi di dire francesi, il termine jarnicoton fu inventato dal nostro gesuita per impedire che Enrico IV bestemmiasse usando l’interlocuzione jarnidieu (je renie Dieu). Al suo posto pretese che affermasse jarnicoton (je renie coton). Per dovere di completezza, è necessario segnalare come il gesuita sia stato da alcuni chiamato in causa nell’assassinio (questo secondo tentativo andò a buon fine) di Enrico IV per mano di un certo Ravaillac.
In un articolo comparso sul numero del 15 luglio 2000 della rivista Figaro Magazine – Histoire a firma Emmanuel Le Roy Ladurie, si afferma che il confessore del re esortò l’assassino a tacere e non rivelare il nome di altre persone che avrebbero potuto essere compromesse senza vero motivo nell’inchiesta sul regicidio.
E che i Gesuiti non fossero del tutto estranei, lo dimostra il fatto che alcuni indicarono un altro influente membro della Compagnia di Gesù, Juan de Mariana come il ‘mandante morale’ o quanto meno l’ispiratore, dell’assassinio; nei suoi scritti, pubblicati nell’anno precedente, si ammetteva infatti la legittimità del ‘tirannicidio’.
Ritorniamo un passo indietro. La revoca del bando dei Gesuiti dal regno di Francia, che passò alla storia con il nome di editto di Fointainbleau, fu firmata da Enrico IV nel 1604: in quello stesso mese di settembre i religiosi ripresero possesso dei beni che erano stati loro confiscati 10 anni prima. A suggello di una riconciliazione che fu faticosa e sofferta, Enrico IV donò alla Compagnia di Gesù, dietro suggerimento di Guillaume Fouquet de la Varenne, suo amico e confidente, “le château-neuf“, fatto costruire sulle rive della Loira nel 1540 da Françoise d’Alençon, la grand-mère del Re.
Lo scopo dichiarato fu quello di crearvi una scuola “pour instruire la jeunesse et la rendre amoureuse des sciences, de l’honneur et de la vertu, pour être capable de servir au public”.
I Gesuiti ressero la scuola sino alla seconda metà del ’700, svolgendo intensa opera formativa. Vale la pena di ricordare che fra il 1607 e il 1615 anche René Descartes sedette sui banchi di quel collegio. Nel 1762 i seguaci di sant’Ignazio furono nuovamente banditi dal regno di Francia e per un breve periodo le sorti di quell’istituzione furono rette da ex allievi. Luigi XVI nel 1764 ordinò che diventasse scuola militare riservata ai figli degli ufficiali morti o feriti in combattimento e ai figli dei cavalieri di San Luigi. Nel 1808 Napoleone Bonaparte le assegnò il nome di Prytanée Militaire.
Secondo la versione più accreditata questo nome deriva da Prytaneion, l’edificio che in ogni città greca ospitava il sacro cuore di Hestia una delle Esperidi, dea del focolare domestico, che i romani chiameranno Vesta.
La chiesa che sorge all’interno del palazzo, dedicata a San Luigi, fu edificata “a maggior gloria d Dio” su progetto di Louis Métezau fra il 1607 e il 1621. L’anno successivo fu aperta al culto, ma solo nel 1693 vennero completate le decorazioni interne.
Opera pienamente barocca ornata di marmi policromi, l’edificio di culto racchiudeva tre elementi di grande rilievo: il maestoso retable realizzato da Pierre Corbineau nel 1633, l’organo del 1640 e il cenotafio reale, nel quale erano conservati i cuori di Enrico IV e Maria de’ Medici.
I primi due hanno resistito al trascorrere dei secoli. Il monumento funebre, purtroppo, fu devastato dalla furia rivoluzionaria nel 1793 e il suo contenuto bruciato davanti al popolo in festa radunato nel cortile principale del palazzo. Si deve alla pietà di un anonimo cittadino la raccolta delle ceneri dei cuori reali, che solo nel 1814 furono nuovamente collocati all’interno della chiesa, in una nicchia nel braccio nord del transetto.
Perno dei tormentatati rapporti fra l’ugonotto sovrano convertitosi al cattolicesimo (fra i mille dubbi e la comprensibile prudenza di papa Clemente VIII Aldobrandini) la chiesa edificata all’interno del palazzo della Flèche definito da lui stesso “l’une des plus belles villas du royaume” era la sede ‘naturale’ per la sepoltura del cuore. Simbolo a un tempo della sua conversione e della riappacificazione con le frange più ‘estremiste’ ( non va dimenticato da un lato il rigore e il fervore missionario dei Gesuiti, e dall’altro la loro provenienza dalla Spagna di Filippo II, il quale solo nel 1598 con la firma del trattato di pace di Vervins lo riconobbe sovrano di Francia) dei movimenti religiosi, il tempio barocco era situato all’interno di quella scuola, gestita da religiosi, che aveva per scopo la formazione di quadri dirigenti di uno stato comunque laico.
Ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, vogliamo sottolineare come la sepoltura del cuore sia per certi versi simbolicamente più importante della sepoltura del corpo.
L’inumazione a Saint-Denis, era, per così dire, un atto dovuto.
I regnanti non vi potevano sfuggire: esservi sepolti nell’ufficialità significava sancire la continuità e soprattutto l’unità del regno di Francia. La sepoltura del cuore, d’altro canto, racchiudeva in un unico atto l’universo simbolico della vita della singola persona, fosse nobile, dignitario o sovrano. Il gesto di seppellire il cuore di Enrico IV a la Flèche è più d’ogni altro rivelatore del difficile rapporto e dell’avvenuta riconciliazione di un ugonotto con la chiesa di Roma del dopo Concilio tridentino, non disgiunta dalla preoccupazione di sottolineare l’importanza della formazione della classe dirigente di uno stato laico.


Enrico IV a cavallo, anonimo, collezione privata.
Enrico IV sorpreso dall’ambasciatore spagnolo mentre gioca con i figli (1817),Jean Auguste In gres, (Montauban, 1780 - Parigi 1867), Parigi, Petit Palais.
Caterina de’ Medici (1560 c.), François Clouet (Tours, 1510 - Parigi 1572), Vellun, dipartimento di Pittura e Fotografia.
Maria de’ Medici (1590 c.), Pietro Falchetti (1535 - 1619),
Maria de’ Medici (1622), Pieter Paul Rubens (Siegen, 1577 - Antwerpen, 1540), Madrid, Museo del Prado.
Entrata trionfale di Enrico IV a Parigi (1623-25), Pieter Paul Rubens, Firenze, Galleria degli Uffizi.
Enrico IV coglie l’occasione per concludere la pace (1628 c.), Pieter Paul Rubens