Anno 5 - N. 15/ 2006


“... nell’intraprendere il Commissariato della Garfagnana Ludovico Ariosto puntava alla diminuzione o addirittura all'eliminazione della piaga del banditismo...”

La via Bibulca tra storia e leggende

Un diploma carolingio del 781 fa menzione per la prima volta di questa via detta "bibulca" o "via dei buoi", forse perché abbastanza larga da consentire il transito a una coppia di buoi aggiogati, ma questo documento è da considerarsi falso, eseguito verso l'880. di assoluta autenticità è invece il diploma che l'imperatore ottone I emise in favore di Reggio Emilia il 20 aprile 962

di di Giuliano Tessera



Ludovico e la via Bibulca


Il saggio di Ferruccio Cosci "La via Bibulca - Superstrada del Medioevo", (Edizioni Ager, Modena, 1989) descrive con minuzia di particolari, frutto di una lunga e appassionata ricerca condotta nel tempo, la genesi per così dire e le varie ipotesi che sono state formulate sull'origine della via Bibulca.
Era ancora in tarda epoca medievale una strada migliore di quelle che attraversavano la montagna modenese, una larga mulattiera che dalla confluenza del Dragone nel Dolo saliva a Rubbiano e a La Verna, proseguiva poi per Serradimigni, Tolara e Frassinoro e Pietravolta e, passando a levante del monte Roncadello, si inerpicava fino ai Prati di S.Geminiano, sopra l'attuale Piandelagotti; valivaca il crinale appenninico al Passo delle Radici, infine scendeva a San Pellegrino per sfociare in Garfagnana.
Un diploma carolingio del 781 fa menzione per la prima volta di questa via detta "Bibulca" o "Via dei buoi", forse perché abbastanza larga da consentire il transito a una coppia di buoi aggiogati, ma questo documento è da considerarsi falso, eseguito verso l'880. Di assoluta autenticità è invece il diploma che l'imperatore Ottone I emise in favore di Reggio Emilia il 20 aprile 962.
In entrambi i documenti, comunque, la via di Val Dragone è indicata come "Via Nuova", aperta probabilmente nei decenni successivi alla conquista longobarda dell'Appennino modenese, avvenuta nel 728 quando i Longobardi sotto il re Liutprando si impadronirono di quasi tutto il Frignano e buona parte dell'alto bolognese, formando così un unico stato tra la Bassa padana e la Tuscia.
Risalirebbe pertanto a quegli anni l'apertura attraverso il valico delle Radici, della "Bibulca, quale indispensabile collegamento tra la Garfagnana e la montagna modenese.
Tuttavia l'origine del tracciato potrebbe essere molto più antica e risalire addirittura all'epoca romana o preromana. Come è noto infatti i Liguri si erano insediati in un vasto territorio che andava dall'attuale Liguria al Mugello sin dal 2000 a.C. La tribù dei Friniati conservò il dominio dell'Appennino modenese e reggiano sino al II secolo a.C., sino alla sottomissione da parte di Roma dopo una guerra ventennale. Tale conquista fu possibile anche per la probabile esistenza di una rete stradale appenninica, una sorta di sistema stradale di accerchiamento di cui i romani si valsero.
A buona testimonianza di ciò stanno alcuni toponimi di derivazione latina, rintracciabili lungo il percorso come "Lavacchio" (da lavacrum, luogo di abbeveraggio), "Cortemezzana", "Arciana", presidi militari romani, oppure "Chiozza", tra Fosciana e S.Pellegrino, diminutivo di "Clodia". Molto suggestiva è poi la Fontana del Silvano oggi detta di S. Giminiano sulla vetta appenninica, dedicata forse a una divinità silvestre, area di sosta fin dall'età pagana.
La via di Val Dragone dunque o via "Bibulca" doveva essere, nel sistema viario appenninico in età romana, tra le più spaziose, con una carreggiata di oltre due metri, superata solo dalle vie consolari larghe tre. E così rimase sino a tutto il medioevo: come dice il Cosci, una vera superstrada per i tempi e, in più, ai viandanti era richiesto un pedaggio, i cui proventi andavano agli abati di Frassinoro che avevano il compito di preservare le caratteristiche di buona transitabilità della strada.
La Badia di Frassinoro era stata fondata nel 1071 da Beatrice di Canossa, vedova del marchese Bonifacio e madre di Matilde e costituì un vero e proprio feudo religioso, dotato di dodici corti, che sopravvisse, sfidando i tempi, per duecento anni, sino al 1261, quando l'abate la concesse a Modena.
Il diritto di riscossione dei pedaggi era stato sancito e riconfermato successivamente da Federico I di Svevia, il Barbarossa: "…diritto di guida o custodia della strada dal ponte Cornilio sino a Chiozza ed anche più in là…"(4 agosto 1164).
Anche dopo un secolo di lotte tra la Badia e Modena, nel trattato di pace del 27 giugno 1261, viene riconfermato il diritto dell'abate di imporre "…il solito pedaggio… per ogni giusta soma caricata su giumenta…" che transitava per la Bibulca (dodici denari imperiali); ne erano esentati i cittadini modenesi. A questo diritto corrispondeva l'obbligo per il monastero di curare la manutenzione della via e di proteggere i viandanti soprattutto dalla piaga del brigantaggio che infestava l'Appennino.
A testimonianza di ciò molte località, lungo i 25/30 chilometri della strada, avevano nomi significativi: "diaccio dei ladroni", "poggio dei briganti", "malpasso" e così via.
L'importanza della via comunque crebbe ulteriormente con la costruzione degli ospizi di S.Giminiano (di cui non esistono più tracce) e di San Pellegrino in Alpe, eretti per assicurare ristoro e assistenza ai sempre più numerosi viaggiatori. La leggenda del Santo Pellegrino riflette il contrasto tra Lucca e Modena per la definizione dei confini risolto con un accordo nel 1306.
Il traffico di merci sulla Bibulca crebbe notevolmente: da Modena si trasportavano a Lucca panni di lana mentre da Lucca verso Modena seterie, olio, armi e ferri battuti.
La via delle Radici mantenne la sua importanza commerciale sino al Cinquecento sino alla crisi economica che coinvolse quasi tutti gli stati italiani.
Nei primi decenni di quel secolo la Bibulca divenne teatro di azioni sanguinose di brigantaggio, incidendo anche sulle pretese egemoniche della Chiesa, con papa Leone X e degli Estensi che non esitarono ad avvalersi del braccio armato di feroci briganti.
Ne seppe qualcosa Ludovico Ariosto, governatore della Garfagnana dal 1522 al 1525 su incarico degli Estensi e la Bibulca, "iniqua via" come la chiamò il poeta, fu spettatrice degli inutili tentativi condotti dal governatore per debellare il fenomeno del brigantaggio.
Una certa ripresa degli scambi commerciali si avrà nel '600.
Nel 1741, Ercole Rinaldo, primogenito del duca di Modena Francesco III, sposò Maria Teresa, figlia di Alderamo Cybo Malaspina, duca di Massa e Carrara, portando in dote agli Estensi il ducato della Versilia, la Garfagnana, il feudo di Varana, Apella e Taponecco in Lunigiana, a Sud del passo del Lagastrello. Per facilitare il percorso Modena-Massa, verrà affidato dagli Estensi, al geografo e matematico Domenico Randelli, il compito di tracciare una nuova strada che collegasse le due capitali. La "Vandelli", tuttavia, per quanto più agevole non declassò l'importanza della Bibulca, anche tenendo conto di tutte le incentivazioni sostenute dal Duca (esenzione di dazi, aiuti alle famiglie che si sarebbero insediate lungo il percorso etc.). Le alte pendenze e la mancanza di centri abitati lungo il percorso fecero il resto e la "Vandelli" non decollò.
Tra il 1766 e il 1776 fu realizzata la via "Giardini", voluta dallo stesso Francesco III e dal granduca Pietro Leopoldo di Toscana. Nacque una via grande e comoda, da Modena a Maranello a Pavullo, poi su verso Pievepelago per risalire al Passo dell'Abetone che rapidamente fece proprio tutto il transito fra Modena e la Toscana, decretando così, di fatto, la fine della antica "Bibulca"
Nell'Ottocento fu aperta la nuova via delle Radici. Le clausole del congresso di Vienna e l'estinzione ormai della casata degli Este, fecero il resto. Poco dopo l'unificazione italiana le province di Modena e Reggio Emilia aprirono una più moderna carrozzabile la "Casinalbo-Imbrancamento" e per la "Bibulca" fu la fine.

ludovico ariosto e la via bibulca

Ormai quella via gli era così nota e abituale che i cavalli e tutta la sua carovana la percorrevano quasi automaticamente. Così, Ludovico Ariosto, al servizio di Alfonso I d'Este, Duca di Ferrara, nominato Commissario della Garfagnana dal febbraio 1522 alla fine di maggio del 1525, scortato dai suoi dieci balestrieri più il loro Capitano e il suo famiglio, meditava sconsolato sulla sorte che gli era toccata, che lo aveva costretto a lasciare la tranquillità della sua città e delle tanto amate ottave. Qui, invece, doveva occuparsi di vicende amministrative e soprattutto pattugliare costantemente le boscaglie della vallata per cercare di stanare i banditi che vi imperavano. I trasferimenti da Modena a Castelnuovo e ritorno, attraverso le fitte faggete del passo delle Radici, dovevano costituire una specie di incubo costante, così lontana dalla sua indole:

O stiami in Rocca o voglia all'aria uscire
Accuse e liti sempre e gridi ascolto
Furti, omicidi, odi, vendette ed ire.

Nell'intraprendere il commissariato della Garfagnana Ludovico Ariosto puntava però alla diminuzione o addirittura all'eliminazione della piaga del banditismo che infestava la provincia estense. Già a sette giorni dal suo insediamento a Castelnuovo, il 27 febbraio 1522, emanava la sua prima grida minacciando pene pecuniarie e corporali, non solo verso i ricettatori dei banditi ma anche verso chi non collaborasse a segnalarli ed aiutasse a catturarli: "…per questa pubblica presente grida si notifica a ciascuno di ricettare né di dì, né di notte, né dar mangiare, né bere, né aiuto, né favore in modo alcuno… ad alcun bandito dello Stato dell'Illustrissimo Duca nostro…, sotto pena di ducati cinquanta per ogni volta et per ciaschedun bandito…; et chi non haverà modo di pagare la detta pena, gli sia commutata in tre tratti di corda…". I nomi dei banditi non sono molti, dai sei ai dieci forse, ma alcuni sono molto ricorrenti nell'epistolario ariostesco: primo fra tutti Battistino Magnano, il "delinquente" che più impegnerà l'Ariosto nei quaranta mesi del suo commissariato. Il suo nome appare una trentina di volte nelle sue lettere, tra cui, significativa è proprio l'ultima inviata agli Anziani di Lucca dove chiede "di porre qualche industria di far pigliare e darmi nelle mani Baptistino Magnano di Castelnovo" e il suo compagno Margutte da Camporgiano. Le cose non andarono però così e quando l'Ariosto si apprestava a concludere il suo commissariato alla fine di maggio del 1525, quel Battistino Magnano era ancora libero e ciò lo farà sospettare di essere un "intoccabile", forse addirittura protetto da Ferrara… . Così, con amarezza e ironia, forse avvicinandosi alla verità, si rivolge ancora al Duca: "… credo che ancho quel Battistino Magnano, che appresso a Bernadetto è il maggior assassino che avesse questo paese, si trovi al soldo di V. Ex.tia, e se non v'è al presente è stato male lasciarlo partire, chè pur intesi che v'era".
Eppure, per ripulire la Garfagnana basterebbe "impiccare quattro o cinque che sono in questa provincia… Battistino Magnano e Donatello e certi suoi compagni…de li quali tutti (ho) fatto più volte querela…" ribadisce scrivendo al Duca. Rimarrà inascoltato.
Ora, però, è ancora per strada, una lunga strada da Castelnuovo a Ferrara e ritorno, su e giù per vallate, colline, fiumi, ponti incerti, su torrenti impetuosi, in fitte boscaglie. Occorrevano, se tutto correva liscio, due giorni e due notti.
Partenza da Ferrara all'alba e poi tutta la campagna modenese, primo pernottamento a un quarto della lunga marcia, secondo pernottamento a Montefiorino, forse con qualche sosta propiziatoria al santuario di San Pellegrino e finalmente alle nove del terzo giorno a Castelnuovo in Garfagnana.
L'antica via Bibulca era percorsa completamente.


la leggenda dell'eremo
di s. pellegrino in alpe
Non lontano dal passo delle Radici si trova l'eremo di San Pellegrino in Alpe, ospizio per i viandanti e pellegrini risalente al secolo XI.
Il santuario è dedicato ai santi Pellegrino e Bianco, non riconosciuti ufficialmente dalla Chiesa, ma la devozione per loro, in particolare per San Pellegrino, è sopravvissuta e non ha mai perso consistenza. Si dice che fosse figlio del re di Scozia e che si fosse fermato in questi luoghi al ritorno da un pellegrinaggio fatto a Roma. Dopo aver rinunciato alle ricchezze si trasferì stabilmente sull'Appennino, riuscendo ad ammansire le fiere che infestavano quella terra inospitale e a vincere le forze maligne del diavolo. Alla sua morte sia gli Emiliani che i Toscani rivendicarono il diritto di custodirne il corpo che venne deposto su un carro a cui furono attaccati due tori, uno modenese e uno lucchese. Questi partirono di corsa per fermarsi esattamente sul confine tra le due province, dove oggi sorge la chiesa del santo e da lì non si mossero.
Esattamente a metà del santuario è collocato il confine tra le due province.

L'eremita San Pellegrino, uomo di grandissima fede e pazienza, vide apparire in questo luogo il diavolo che non solo lo tentò inutilmente ma lo colpì con un sonoro ceffone così forte da farlo cadere a terra tramortito. Il santo non si perse d'animo e, stanco dei ripetuti scherzi del demonio, ricambiò il ceffone colpendo con tale forza da mandarlo a sbattere contro un monte, facendoglelo attraversare da parte a parte, per poi finire la sua corsa nel Tirreno: così è nato il Monte Forato, frutto del Giro del Diavolo e così vuole la credenza popolare.

Quando si va a San Pellegrino si deve portare una pietra in segno di penitenza. Quanto più è grossa e pesante tanto più grande ed efficace è la penitenza. La pietra va deposta al Giro del Diavolo, proprio in quel punto, dove San Pellegrino rifilò al maligno un gran ceffone e in quel punto l'erba non è più ricresciuta. Così vuole la tradizione secolare e così, nei secoli si è formata una montagna di sassi, portata da migliaia di pellegrini che si recavano al santuario per fare penitenza.

All'Alpe vennero, in pellegrinaggio, personaggi famosi: nel 1216 Arrigo, figlio di Federico II, poi Lodovico il Bavaro e Giovanni di Lussemburgo, re di Boemia. Oltre all'Ariosto, Alessandro Tassoni e Fulvio Testi e nel 1563 Bianca Cappello, poi divenuta Granduchessa di Toscana. Nel 1592 giunse all'Alpe Michelangelo e nel 1658 la regina Cristina di Svezia con un seguito di centinaia di nobili guidati dal marchese Sebastiano Montecuccoli. Nel 1716 fu la volta di Ludovico Antonio Muratori e nel 1736 Pietro Leopoldo, granduca di Toscana; nel 1738 Francesco II d'Este; nel 1741 e 1750 Maria Teresa Cybo, duchessa di Massa e Carrara; nel 1779 Ferdinando, duca di Parma; nel 1786 Pietro Rodolfo, granduca di Toscana; tra il 1760 e il 1790 lo scienziato Lazzaro Spallanzani. Nel 1820 il poeta inglese Shelley e poi Pascoli e tanti altri sino ad oggi.

Il fondo Fry e le “grida” dell’Ariosto
Il Fondo Fry è costituito da circa 37000 documenti storici italiani donati dal Prof. William 'Jack' Fry alla biblioteca dell'Università di Madison, Wisconsin e spaziano dal '400 al secondo dopoguerra. William Fry ha insegnato fisica alla University of Wisconsin per quasi cinquant'anni, con particolare interesse per le Alte Energie. Socio dell'Accademia Galileiana di Padova è esperto, tra l'altro, delle caratteristiche fisiche dei violini di Stradivari.
Tra i manoscritti è interessante il "Libro dei conti"o Libro mastro, relativo alle spese e agli introiti delle vicarie della Garfagnana estense; dall'ultimo trimestre del 1524 all'ultimo trimestre del 1530, quindi gli ultimi otto mesi del commissariato dell'Ariosto.
Da tale manoscritto è possibile ricostruire l'atteggiamento che l'Ariosto ebbe nei confronti del brigantaggio e dei suoi tentativi, inutili, di eliminare tale piaga.

Grida I

Per parte e comandamento del magnifico et
generoso
conte Ludovico Ariosto, ducal generale
Commissario in
Carfignana, per questa pubblica presente
grida si notifica
a ciascuno et huomo particolare, di che grado o
conditione si voglia essere o sia, che non
ardisca per
modo alcuno di ricettare né di dì, né di
notte, né dar
mangiare, né bere, né aiuto, né favore, in
modo alcuno
che si possa dire, né imaginare,
ad alcun bandito…
né con detti banditi
andare in compagnia, né menarli seco, né
parlar, né
stare, né scrivere…
sotto pena di ducati cinquanta…
...
et se alcuna persona
non haverà modo di pagare, se gli
commuterà questa pena in tre tratti
di corda…


Grida V

… che ogni
bandito, o condennato, che ammazzi un altro
che sia
bandito per omicidio, guadagnerà la gratia
libera…


Grida VII

… ogni bandito che
a
matasse un
altro bandito di questa provincia per
omicidio, haverà
la grazia di se', et gli serà perdonato ogni
pena in la
quale fussi incorso.