Anno 5 - N. 15/ 2006


Nell’agosto del 1981 viene abrogato l’art. 587 del C.P., ma…

IL DELITTO D’ONORE e la sua storia abrogativa

Quando l’onore di una persona è violato, la persona è umiliata, gettata a terra, calpestata e privata di rispetto. lo scandalo pubblico è sufficiente ad arrecare danno all’immagine e a far scattare meccanismi di vendetta che vedono l’uomo (marito, padre o fratello) accanirsi contro la donna. per restaurare il perduto onore, i membri maschili della famiglia o della società devono intraprendere azioni che superano il limite della legalità

di di Rita Uggeri



Immagini di Giovanni Boldini (Ferrara, 1842 - Parigi, 1931)


Sin dai tempi più antichi l’onore è stato per l’essere umano un elemento di grande importanza e di distinzione all’interno di una comunità, quasi un lasciapassare per ottenere e mantenere un alto riconoscimento sociale.
Si parla spesso di onore personale e familiare, onore professionale, onore civile, onore nazionale e religioso, quasi ad indicare che la vita di ogni persona in ogni suo aspetto è pervasa dal senso dell’onore.
E molto spesso, in maniera velata, l’onore si nasconde dietro ad altri sentimenti che insieme formano la dignità dell’uomo.
Il significato di onore si modificò nei secoli e fu variamente interpretato a seconda dei contesti geografici e culturali.
In quasi tutte le lingue europee il termine onore esprime una sostanziale dualità di significati. Da un lato, l’onore di un individuo è ricollegato alla sua condotta virtuosa e alla sua capacità di aderire ai valori e ai comportamenti legati a codici non scritti che esprimono la cultura di una determinata società. Dall’altro lato questo concetto è strettamente associato al gruppo di appartenenza e alle gerarchie sociali che definiscono il ruolo e la funzione del singolo soggetto.
È su questi significati e sull’acquisizione e il mantenimento dell’onore che spesso si sono creati, all’interno dei gruppi sociali di varia natura, conflitti e cambiamenti di fondo di una società.
Onore è quindi un termine polisemantico, ambiguo nel suo significato e proprio questa sua polisemia è riscontrabile negli scritti di pensatori, filosofi e sociologhi di tutte le epoche, che lo hanno menzionato nei contesti più vari.
L’onore inscindibile dal privilegio e dalla condizione di status fu una caratteristica della società cetuale dove l’onore dell’aristocrazia era legato alla distinzione di classe e dove i ceti sottoposti non potevano mettere in discussione la gerarchia sociale, legittimando così la realtà del potere a vantaggio dell’ordine sociale.
Nel moderno mondo occidentale, l’onore è diventato sempre più un fatto legato al singolo soggetto e alla creazione di una reputazione intesa come pubblica stima, imposta al singolo dalla società.
L’onore è quindi un sentimento comunitario, che tiene in considerazione il giudizio altrui e presuppone la stima degli altri per il soggetto, si alimenta nell’integrazione sociale, cambia nei parametri e nei riti, ma si interiorizza e resiste.
E proprio l’uomo comunitario, più attento ai costumi sociali e al senso del decoro, pone una grande attenzione alle convenzioni sociali e per lui diventa importante proteggere il prestigio e la buona reputazione sua e della famiglia.
La castità della donna, nel passato, era valutata come un requisito imprescindibile dal suo onore e il suo corpo riuniva in sé i valori positivi di una intero gruppo sociale.
Da questo nasce l’importanza assegnata, in ogni tempo, alla verginità femminile e la conseguente ossessione per tutto ciò che può minacciarla.
La purezza del sangue, intesa soprattutto come capacità riproduttiva, era affidata al comportamento della donna (salvaguardia del sangue).
Al contrario il comportamento maschile doveva costantemente denotare coraggio, abilità e determinazione nel difendere il nome e l’onore della famiglia.
Salvare la faccia e risanare l’orgoglio, quando questo veniva ferito da qualcuno con atteggiamenti e atti; ecco cosa richiedeva al singolo la vita comunitaria del passato.
Forse era questa la motivazione che spingeva l’uomo ad attuare un delitto davanti ad un adulterio, uccidendo la moglie, la fidanzata, la sorella e perfino la madre o la figlia, pensando di recuperare, attraverso questo atto criminoso, l’onore, ma anche la dignità perduta davanti alla comunità.
Quando l’onore di una persona è violato, la persona è umiliata, gettata a terra, calpestata e privata di rispetto (umile deriva dal latino humilis, aggettivo di humus, terreno).
Lo scandalo pubblico è sufficiente ad arrecare danno all’immagine e a far scattare meccanismi di vendetta che vedono l’uomo (marito, padre o fratello) accanirsi contro la donna, in quello che è conosciuto appunto come “delitto d’onore”.
Per restaurare il perduto onore, i membri maschili della famiglia o della società devono intraprendere azioni che superano il limite della legalità.
In diritto il delitto d’onore è un tipo di reato commesso per salvaguardare (nell’intenzione di chi lo commette) una particolare forma di onore, o comunque di reputazione, con particolare riferimento a taluni ambiti relazionali, come ad esempio i rapporti matrimoniali e comunque di famiglia.
In Italia fino ad un trentennio fa, l’attuazione di un delitto al fine di salvaguardare l’onore (ad esempio l’uccisione della coniuge adultera o dell’amante di questa o di entrambi) era sanzionata con pene minori rispetto all’analogo delitto, ma con movente diverso. Il motivo di questo diverso atteggiamento legale era riconducibile al riconoscimento che l’offesa disonorevole da parte della donna era considerato un grave danno all’immagine dell’uomo.
Le motivazioni d’onore comprendevano anche la non verginità al momento del matrimonio e il solo sospetto di adulterio.
Il Codice Rocco, promulgato durante il fascismo, all’art. 587 prevedeva la riduzione di un terzo della pena per chiunque uccidesse la moglie, la figlia, o la sorella per difendere l’onore suo e della famiglia.
Era stato così introdotto nel Codice Penale il delitto d’onore.
Erano previste, come già detto, corpose riduzioni di pena con frequenti scarcerazioni nei casi in cui il reo fosse privo di precedenti penali.
Vale la pena riportare il dettaglio originario della norma:
“Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo e della sua famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella” (art. 587 Codice Penale).
La circostanza attenuante era che vi fosse, nel momento del fatto, uno stato d’ira, che veniva in pratica sempre presunto. In questi termini il delitto d’onore poteva essere considerato una vera “licenza d’ uccidere”, che ha resistito nel nostro Codice Penale fino al 1981, anno dell’abolizione dell’art. 587.
Il delitto d’onore può quindi essere considerato un capitolo doloroso nel costume del nostro tempo.
La battaglia per l’abolizione dell’art. 587 fu difficile perché doveva rompere incrostazioni secolari e le parole degli specialisti, giuristi e sociologhi, hanno avuto spesso, nel nostro paese, una eco molto fioca.
Negli anni ’70 del 1900, ma è meglio parlare degli anni tra il 1968 e la fine del decennio successivo, si varano riforme importanti sui diritti dei cittadini. Alcune leggi riguardano proprio i giovani e le donne: l’introduzione del divorzio, la creazione dei consultori familiari, la legalizzazione dell’aborto, la legge in materia di parità salariale e di tutela del lavoro e il nuovo diritto di famiglia.
Grandi cambiamenti sociali hanno trasformato negli ultimi quarant’anni il senso del matrimonio e quindi il ruolo dei suoi protagonisti. In particolare con le riforme legislative degli anni ’70. Con la legge sul divorzio e la riforma del diritto di famiglia, il rapporto tra i coniugi e le condizioni per contrarre matrimonio, per la donna, sono mutate in maniera significativa.
La struttura di ogni famiglia, ma più in generale del modello famigliare, risulta strettamente correlato (quasi sempre sul piano funzionale) al sistema socio-economico in cui è inserita.
L’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi è il principio fondamentale a cui fare riferimento per descrivere l’attuale rapporto tra coniugi.
Questo principio è stato affermato nella Costituzione italiana del 1948, che nell’art. 29 afferma: ”La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità famigliare”.
Tuttavia nei primi dieci, quindici anni dalla sua emanazione questo principio fu scarsamente applicato, soprattutto perché prevalse l’idea che la disuguaglianza attraverso il rapporto gerarchico tra i coniugi, fosse funzionale al mantenimento della stabilità dell’istituzione famiglia la cui importanza era da considerarsi superiore a quello dei singoli membri. L’effetto dirompente per l’operatività dei principi di uguaglianza e libertà di scelta è da attribuire sicuramente alla legge sul divorzio del 1970: il matrimonio, da questo momento in poi, non è più un vincolo destinato a durare tutta la vita. Questa possibilità di porre fine legalmente ad un rapporto basato ancora sulla potestà del marito sulla moglie, fu uno degli eventi che produsse un cambiamento della disciplina del rapporto coniugale.
Ugualmente innovativa è stata la riforma del Diritto di famiglia del 1975.
Le norme del nuovo Diritto di famiglia prefigurano un nuovo modello di famiglia e di società; la riforma cancella le disposizioni in cui si faceva riferimento al marito come “capo famiglia”, afferma che col matrimonio si acquistano gli stessi diritti e si assumono gli stessi doveri e che ognuno deve contribuire al soddisfacimento dei bisogni della famiglia in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro, professionale e casalingo.
Si afferma così l’idea della collaborazione nel rispetto reciproco dei bisogni di ognuno, che acquistano pieno riconoscimento, senza essere sacrificati per l’interesse superiore della famiglia e si tutelano i diritti inviolabili e la garanzia di sviluppo della personalità dei singoli.
I diritti-doveri matrimoniali si sostanziano fondamentalmente nell’impegno di fedeltà, reciproca assistenza morale e materiale, coabitazione, collaborazione e contribuzione ai bisogni della famiglia e ai doveri verso i figli. Entrambi i coniugi devono collaborare allo sviluppo e alla crescita della famiglia ognuno in relazione alle proprie capacità e aspirazioni, conservando la propria libertà ed autonomia nelle relazioni sociali.
Il nuovo diritto di famiglia non consente di legittimare modelli autoritari di organizzazione delle funzioni della famiglia; il fine della politica legislativa è proprio quello di rimuovere i caratteri di autoritarismo repressivo che da sempre tendevano a degradare le forme e i contenuti del modello famigliare.
A partire dai primi anni ‘70 il torpore giuridico degli anni passati lascia il posto al dibattito e ad un fervore dottrinale che si incentra su principi innovatori, recependo prospettive riformatrici a livello internazionale e può dirsi ormai pacificamente accolta l’idea che la Costituzione non ha più soltanto la tradizionale funzione di limite negativo all’intervento penale, ma una ben più evidente funzione rilevatrice circa quelli che devono essere i beni oggetto di tutela. Struttura del reato e tipologia delle sanzioni trovano nella Costituzione saldi punti d’appoggio.
Anche la Corte Costituzionale, sia pure mantenendo un atteggiamento prudente, interviene con maggiore frequenza e incisività sul Codice Rocco, ma l’attuazione di una decisiva riforma del Codice Penale si legava sempre più alle riforme istituzionali.
Nel campo penalistico, nel decennio 1970-1980, fu evidente che l’Italia continuava a rimanere ancora legata al passato malgrado lo sviluppo economico e sociale del Paese.
Anche i dati statistici confermavano l’urgenza di un intervento; malgrado l’approvazione del divorzio, i costumi sociali mutati e un’apparente modernità di vedute, i dati ISTAT relativi agli anni dal 1977 al 1980, rilevano un numero elevato di “omicidi a causa d’onore”. Si contano infatti 21 omicidi a causa d’onore nel 1970 e 18 nel 1971. Il numero rimane pressoché stabile negli anni 1972 (14), 1973 (10) e 1974 (19). Nel 1976 (28) il numero dei delitti ricomincia la sua ripresa: 1977 (74), 1978/79 (69) fino ad arrivare ad una cifra molto alta nel 1980, con 78 omicidi a causa d’onore (1).
Riformare il Codice Penale significava intervenire sulla parte speciale, vale a dire su quelle fattispecie criminali che erano espressione di una cultura che non appartenevano più alla società italiana ormai alle porte degli anni ’80 e adeguare il Codice al dettato costituzionale e ai nuovi valori e interessi espressi dalla società. Significava quindi fare scelte importanti, stabilire delle priorità, mutare nella sua essenza sociale il Codice Rocco e sradicare una cultura atavica e invecchiata . Le disposizioni del Codice Rocco in materia di delitto d’onore e la concezione della donna quale emerge da buona parte dei suoi istituti, erano espressione di un mondo arcaico nel quale tuttavia una parte del paese ancora si riconosceva.
Le notevoli differenze di mentalità tra le diverse aree del territorio e il loro diverso grado si sviluppo, avrebbero costituito un ulteriore motivo di contrasto nel paese e tra le diverse forze politiche.
Il disegno legge per l’abrogazione del fatidico art. 587, riposò a lungo nei cassetti di Palazzo Madama. Ripresentato nella VII legislatura (2) (1976), la commissione giustizia lo bocciò, cambiando totalmente uno dopo l’altro tutti gli articoli. Nella discussione in commissione naturalmente nessuno difese il delitto d’onore, ma il passo per giungere all’abrogazione dell’articolo meritava una più approfondita indagine, naturalmente rapida.
Il Parlamento italiano continuava a temporeggiare pur senza un giustificabile motivo e in tutta questa situazione, le donne rimasero a guardare, impotenti e amareggiate.
Ma nella mutata realtà del paese, di fronte al crescere del movimento di emancipazione e liberazione della donna e alla presenza di leggi di parità giuridica e sociale, importanti nella gestione dei rapporti tra uomo e donna, una risposta non poteva più essere rinviata e ormai era forte il desiderio dell’opinione pubblica di cambiare le norme che facevano a pugni con i cambiamenti intervenuti nei costumi della società.
Dopo la legge sul divorzio (L. 898 del 1 dicembre 1970), la riforma del Diritto di famiglia, la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza (L. 194 del 22 maggio 1978), una legge per l’abrogazione del delitto d’onore, un istituto definito come una macchia nell’ordinamento giuridico italiano, poteva essere considerata la giusta conclusione di un decennio di forte sviluppo sociale.
Con un disegno di legge approvato dalla Commissione Giustizia e Senato, con l’intervento del sottosegretario al Ministero di Grazia e Giustizia Giuseppe Gargani, nel 1981 l’Italia abroga con la legge 442/81 i delitti commessi per causa d’onore.
Il Parlamento interveniva tardivamente su queste disposizioni che, in molte ipotesi, avevano consentito di lasciare impuniti omicidi dolosi premeditati, sapientemente fatti passare per omicidi per causa d’onore.
Le norme abrogative dell’art. 587 non solo segnarono una tappa positiva nell’evoluzione del nostro sistema giuridico e in particolare della normativa penale, ma spinsero in avanti una positiva maturazione culturale del costume del Paese in armonia con le scelte di fondo della Costituzione italiana e dei fondamentali diritti dell’individuo.
Certo cancellare alcuni articoli dal Codice Penale non basta a cancellare di colpo certe tradizioni, né basta a cancellare dal cuore della gente l’umiliazione dell’orgoglio, l’ingiustizia dell’inganno, la voglia di possesso, la paura del ridicolo, il dolore dell’abbandono e tutte le eterne profonde ferite da cui si può essere tentati di difendersi offendendo gli altri a morte. Ma è un fatto importante e positivo, che la legge agisca anche come indirizzo, prevenzione e stimolo e che si adegui al mutare dei rapporti sociali, condannando il delitto senza trovare le attenuanti d’“onore”.
Nell’agosto del 1981 viene quindi abrogato l’art. 587 del C.P., ma questo non è sufficiente ad eliminare totalmente, nella società italiana, l’omicidio nell’ambito famigliare. In Italia non si sente più parlare del delitto per motivi di onore, ma sotto altre definizioni e motivazioni si continua a perpetrare un tipo di delitto che vede come protagonista la coppia, la famiglia e dove, per la maggior parte dei casi, la vittima è la donna.
Si parla, oggi, di delitti passionali, ma le dinamiche si allontanano di poco rispetto al delitto d’onore di passata memoria.
Nella società globalizzata, caratterizzata da un’interazione complessa tra i soggetti, tra le culture, i comportamenti e le informazioni, si modifica ogni aspetto ed esperienza della vita individuale e sociale ed anche la famiglia viene investita da profondi mutamenti. La famiglia oltre a costituire la cellula fondamentale della società è anche una relazione sociale che muta forma a seconda dell’esperienza e dei progetti di vita di ciascun individuo ed è in rapporto costante con il microcosmo e il macrocosmo di riferimento.
La famiglia contemporanea viene descritta, da una definizione sociologica, come sistema vivente, altamente complesso, differenziato e dai confini variabili, in cui si realizza quella esperienza vitale specifica che è fondamentale per la strutturazione dell’individuo come persona, cioè come individuo in relazione (essere relazionale) nelle sue determinazioni di genere e di età, quindi nei rapporti tra i sessi e le generazioni.

Individuare gli elementi interpretativi capaci di spiegare il fenomeno dell’omicidio in famiglia appare un obiettivo complesso e scientificamente debole. All’interno di un quadro più generale degli omicidi volontari, si inserisce l’analisi degli omicidi in famiglia, oggetto di studio sistematico da parte dell’Eu.r.e.s. (Europa Ricerche Economiche e Sociali n.d.r.) ormai da diversi anni.
Passando all’analisi dei dati italiani, appare in primo luogo utile considerare che, al di la delle variazioni che annualmente caratterizzano l’andamento del fenomeno, si riscontra negli anni un andamento sostanzialmente costante del numero delle vittime di omicidio all’interno della famiglia e nelle relazioni affettive, con moventi di natura passionale, con valori compresi tra le 180 e 220 vittime annue. Ad uccidere sono prevalentemente gli uomini (7 vittime su 10 sono donne).
L’omicidio legato al rapporto di coppia, ha rilevato l’ Eu.r.e.s., è ad elevatissima matrice maschile (8 assassini su 10 sono uomini); l’Istituto di ricerca spiega che la separazione della coppia, spesso voluta da lei, getta l’uomo in un panico sconosciuto e il delitto può essere una delle conseguenze.
Secondo l’ Eu.r.e.s., a spingere l’uomo ad uccidere è l’abbandono, vissuto come insanabile ferita narcisistica, cui il maschio non è preparato. Ritenendosi l’anello forte della coppia, l’elemento cui spettano tutte le decisioni importanti, l’uomo avverte come un’offesa insanabile il fatto di essere lasciato.
Nel passato si chiamava delitto d’onore, oggi viene chiamato delitto passionale, ma in entrambi i casi le donne rimangono il bersaglio principale della violenza in famiglia, fino alla sua estrema conseguenza: la morte.