Anno 5 - N. 15/ 2006


STORIA DELLA MEDICINA

AMBROISE PARÉ maestro di chirurgia

“JE LE PENSAY, DIEU LE GUARIST” il chirurgo che non sapeva il latino

di di Francesco Piscitello



Ritratto di A. Paré


Figlio di un fabbricante di bauli ugonotto, quello che sarebbe diventato uno dei nomi principali nel Gotha della chirurgia di tutti i tempi, nasce a Bourg-Hersent, presso Laval, in Francia, in una data incerta intorno al 1510 - il 7 dicembre 1509, secondo Pazzini (1) - e muove i primi passi dell’arte sanitaria con Jean Vialot, barbiere chirurgo di Laval. L’aspirazione del giovane Ambroise, all’epoca, non è che quella di esercitare la stessa professione del maestro che non consente, oltre al taglio di barba e capelli, altro che l’esecuzione di salassi e coppettazioni. Nel 1529 è a Parigi, all’Hôtel-Dieu, come barbiere infermiere: qui pratica con assiduità la dissezione di cadaveri acquisendo buone cognizioni anatomiche e si esercita nella chirurgia.
All’Hôtel-Dieu otterrà il diploma. Nel 1536 è al seguito dell’Armata d’Italia del Maresciallo Montjean come “chirurgo di veste corta”: barbiere chirurgo, appunto.

IL CHIRURGO DI GUERRA

Durante l’assedio di Torino viene a scarseggiare l’olio di sambuco che, mescolato a triaca, veniva allora applicato bollente sulle ferite d’arma da fuoco, secondo gli insegnamenti della medicina araba: Paré ripiega allora, in mancanza d’altro, su una pozione costituita da rosso d’uovo, olio di rose e qualche goccia di trementina abitualmente impiegata come digestivo, confidando che possa giovare almeno come linimento e, dopo aver consumato per intero l’olio tradizionale, applica il digestivo sulle ferite degli altri. Per la preoccupazione di aver recato danno con la sua iniziativa, come racconterà nel 1545 nella prima delle sue opere scientifiche - La méthode de traicter les playes faictes par harquebuses et aultres bastons à feu stampata dal Gaulterot a Parigi nel 1545 - trascorre una notte insonne: alzatosi di buon mattino ed andato a visitare i suoi feriti, trova però ...ceux auxquels i’auoit mis le medicamente digestif sentir peu de douleur à leurs playes, sans inflammation et tumeur, ayans assez bien reposé la nuit: les autres où auoit appliqué la dite huil, les trouvay febricitans, auec grande douleur, tumeur et inflammation aux enuirons de leurs playes. Adonc ie me deliberay de ne iamais plus brusler ainsi cruellement les pauvres blessés de harquebusades (2). Il metodo, divulgato attraverso le numerose traduzioni del piccolo trattato, viene immediatamente adottato, oltre che dall’esercito francese, dai chirurghi di guerra di mezza Europa e il nome di Paré comincia ad acquistare notorietà.
La fama del chirurgo-barbiere di Laval non è tuttavia legata a questa peraltro casuale scoperta, ma ad innovazioni di ben più grande importanza e destinate ad imporsi come pratica chirurgica consolidata: l’emostasi mediante la legatura dei vasi invece che, com’era pratica corrente al suo tempo, la cauterizzazione con ferro rovente. Per la verità la legatura dei vasi nel corso degli interventi chirurgici era già stata impiegata dal Ferri, dal Da Vigo, dal Fioravanti e da altri ma fu Paré che, a partire dall’amputazione di una gamba di un gentiluomo del duca di Rohan, gravemente ferito da un colpo di colubrina nell’assedio di Danilliers, la praticò sistematicamente portandola ad un livello di perfezione non lontano da quella attuale.

IL CHIRURGO DI CORTE

Tra una campagna militare e l’altra torna a Parigi dove la grande perizia acquistata durante le 45 battaglie alle quali partecipa (le guerre, anche in tempi moderni, hanno sempre fornito grandi quantità di materiale per il perfezionamento delle capacità operatorie dei chirurghi) lo accredita come chirurgo anche presso la società civile - sarà chirurgo primario all’Hôtel-Dieu - che gli tributa fama e numerosi riconoscimenti: gode anche la stima del re Enrico II che lo fa accogliere, nel 1554, nella Confraternita di S. Cosma come Maestro di Chirurgia - finalmente “chirurgo di veste lunga”- e gli conferisce l’incarico di chirurgo di corte ma non potrà tuttavia venire salvato neppure dalla maestria di Parè quando, durante una giostra, verrà ferito a morte dalla lancia di Gabriel de Montgomery che gli trapassa l’occhio sinistro.
Come sempre accade, il successo accende l’invidia e la malevolenza e Paré viene aspramente criticato soprattutto dai colleghi della ultraconservatrice Faculté de Médecine che contrastò non poco la sua elezione a S. Cosma. L’unico ed assai povero argomento a disposizione dei suoi detrattori, però, è l’ignoranza del latino (tutte le sue opere sono in francese) che le umili origini non gli hanno consentito di apprendere nella giovinezza: è inattaccabile invece sul piano della maestria nell’arte chirurgica, i cui risultati sono facilmente verificabili, dove non è secondo a nessuno in tutta Europa, tanto che l’incarico a corte gli viene riconfermato, con l’aggiunta di ulteriori privilegi, da Francesco II, Carlo IX ed Enrico III: Carlo IX anzi, sotto il cui regno ebbe luogo la strage degli Ugonotti, sembra lo abbia salvato dall’eccidio della notte di san Bartolomeo nascondendolo nella sua stanza da letto (3).
Due volte sposato, ebbe nove figli, sei dei quali vide morire nel corso di una non breve esistenza: si spense infatti, a sua volta, intorno agli ottant’anni. La sua tumulazione nella chiesa di St. André-des-Arts, ha fatto dubitare alcuni della sua fede ugonotta ed in effetti la controversia non ancora risolta (4).

LA FIGURA DI AMBROISE PARÉ

I meriti del chirurgo di Laval non sono tanto scientifici quanto pratici, soprattutto per l’impulso che, per opera sua, riceve la tecnica operatoria: l’emostasi attraverso la legatura dei vasi è sicuramente un punto fermo nella storia della chirurgia. Ripropone, migliorandolo, l’intervento per il labbro leporino, già noto agli arabi ma caduto in disuso; sostiene l’induzione del parto in caso di emorragia uterina; si occupa di odontoiatria creando un vero e proprio dentifricio contenente polvere di pomice, dalle proprietà abrasive, e caustici “per uccidere i vermi” della carie (5); progetta strumenti chirurgici come il trapano a corona; sostiene l’uso delle protesi e dei cinti erniari; dimostra l’inefficacia della “polvere di mummia” fino ad allora in grande auge e l’inesistenza dell’unicorno: tuttavia - ed in questo è uomo del suo tempo - crede che il toccamento del Re guarisca la scrofola, che la peste si diffonda per volere divino e, come Paracelso, che gli astri presiedano al funzionamento degli organi e ne condizionino l’ammalarsi.
La sua opera non è vasta ma assai significativa (una Brief collection de l’administration anatomique, il trattato sulla cura delle ferite d’arma da fuoco, e Dix livres de chirurgie) ed è stata raccolta nel 1575 in un grosso volume che vide numerose edizioni col titolo di Oeuvres de monsieur Ambroise Paré conseiller et premier chirurgien du Roy.
Non si può parlare di Ambroise Paré senza rendere omaggio alle sue qualità morali: perseverante nel perfezionare la metodologia chirurgica della quale si andava impadronendo e tenace nel combattere la medicina dogmatica, era anche medico di grande umanità e lo testimonia la notte insonne e preoccupata durante l’assedio di Torino. Ma quel che più colpisce di quel davvero grande chirurgo è la straordinaria modestia che gli fa scrivere nel frontespizio de La méthode de traicter les playes..., accanto al suo nome, il titolo umile di maistre barbier chirurgien e che gli fa rispondere a chi si complimenta con lui per l’efficacia delle cure che riserva al suo malato: “Je le pensay, dieu le guarist”


LA TRIACA
Quando Pompeo vinse la guerra contro Mitridate fece cercare nella reggia del monarca sconfitto tutti gli scritti di argomento farmacologico che il generale portò a Roma come bottino e che affidò, per la traduzione, al suo liberto Pompeo Lenco. Tra le varie ricette si trovava quella del “mitridato”, ritenuto un potente antidoto contro i veleni. All’epoca di Nerone Andromaco il vecchio, medico dell’imperatore, aggiunse al mitridato della carne di vipera e molti altri componenti: era nata la teriaca o triaca, un rimedio che fu impiegato per molti secoli ancora. Secondo Plinio, la triaca doveva contenere 54 ingredienti, ma nei secoli successivi essi aumentarono fino a superare il centinaio. La ricetta originale di Andromaco fu scritta dal medico stesso in versi eleganti: un uso, quello del verso, per memorizzare attraverso il ritmo più facilmente ricette e prescrizioni, durato fino al medioevo (si pensi al Regimen Sanitatis della scuola salernitana). Ognuno degli ingredienti della triaca era attivo nei confronti di una malattia o di un gruppo di malattie, considerate effetto di umori cattivi assimilabili in qualche modo a dei veleni: la triaca stessa, dunque, era una specie di panacea atta a curare una grande quantità di infermità (*).

(*) A. Pazzini: op. cit.

LA MUMMIA
Rhazes, uno fra i più celebri medici arabi, definisce la mummia come la sostanza che si trova nelle terre dove si conciano i corpi dei morti con l’aloé e questo, misto all’umore che cola dai cadaveri, forma un composto simile alla pece marina. Era particolarmente raccomandata nell’“indebolimento dei nervi”, come depurativo del sangue, nell’anemia, nell’amenorrea, nell’asma, nella tisi. Del portentoso rimedio si conoscevano diverse qualità: la mummia bianca, proveniente da cadaveri mummificati spontaneamente, quella nera che si trovava negli ipogei egizi e quella, pregiatissima, proveniente da fanciulle morte vergini. Frequenti le sofisticazioni: aperta la tomba dei morti di peste o di lebbra se ne asportava del materiale putrescente che veniva distillato e venduto come vera e legittima mummia(*).

(*) A. Benedicenti: Malati, medici e farmacisti (Hoepli Milano, 1924).