Anno 6 - N. 16/ 2007


STORIA DELLA MEDICINA

LA MEDICINA nel mondo arabo

“... tutto quanto sta scritto nei libri vale molto meno dell’esperienza di un medico che pensa e ragiona” Da Giovannizio ad Avicenna, da Rhazes ad Averroé la grande cultura islamica del medioevo ci ha consegnato, rielaborato, il sapere medico dell’antichità greca e alessandrina

di  Francesco Piscitello



Avicenna (Balkh, 980 – Hamadan, 1037),


Analogamente alla concezione della vicina e per molti versi simile cultura ebraica, la medicina delle popolazioni nomadi del medio oriente - alle quali Maometto avrebbe dato unità religiosa e politica - si fondava sull’idea che il potere di guarire fosse esclusivo della Divinità ed a questa l’uomo si dovesse rivolgere nella malattia: in suo potere stava soltanto la diligenza nelle pratiche volte a prevenire l’infermità come le frequenti abluzioni, anche in questo non diversamente dai costumi ebraici, e nelle altre misure di prevenzione di cui lo stesso Maometto sarà appassionato fautore, come provano le numerose prescrizioni igieniche emanate dal Profeta.

L’ESPANSIONE DELL’ISLAM E LA PRIMA FASE DELLA MEDICINA ARABA

Prima d’allora il sapere medico di altre popolazioni mediterranee e medio-orientali aveva già cominciato ad infiltrarsi nel mondo arabo, attraverso medici entrati in contatto soprattutto con la civiltà ellenistica. Ma è solo dopo Maometto che l’Islam ha modo di assimilare le culture che via via va incontrando durante la sua rapidissima espansione che in meno di un secolo a partire dall’Egira (622) porta alla conquista, della penisola arabica, della Persia, dell’attuale Irak, dell’Egitto, del Marocco e di parte della Spagna, territori nei quali sono fiorenti due centri di grande importanza scientifica: Gondishapur in Persia ed Alessandria in Egitto.
A Gondishapur si erano rifugiati i seguaci dell’eresia nestoriana ai quali si aggiunsero, successivamente, i neoplatonici ateniesi cacciati da Giustiniano nel 529. Grazie a costoro la città persiana, già centro culturale e medico di primaria importanza anche per l’influenza della non lontana penisola indiana, si arricchì della tradizione medica greca tanto che la scuola medica locale divenne la più importante della regione.
Ad Alessandria, che non aveva ancora cessato di essere il più importante centro culturale e scientifico di tutto il mediterraneo, era ancor viva la grande tradizione medica ellenistica e quell’ermetismo dal quale prese origine il grande sviluppo dell’alchimia che caratterizzò sempre la cultura araba.
Durante questa prima fase, che si conclude due-tre secoli dopo l’Egira, l’impegno fondamentale dei principali rappresentanti della medicina araba è quello della traduzione di testi dell’antichità classica e della sintesi di quel sapere con le prescrizioni sanitarie coraniche e con la cultura sapienziale ed ermetica alessandrina. Oltre al direttore dell’ospedale di Gondishapur, Giorgio, chiamato a Bagdad dal califfo Almansur ed il cui figlio fu medico di Harun al Rashid, principali esponenti della medicina di questo periodo furono Mesué il vecchio, Giovannizio, Serapione il vecchio, nomi coi quali furono noti presso il mondo cristiano rispettivamente Yahyà ibn Masawaih, Hunain ibn Ishaq e Yahyà ibn Seraphiùn.
Mesué, un siriano di origine cristiana morto nell’857, che esercitò la professione a Bagdad, fu il primo scrittore di testi medici in lingua araba. Delle sue numerose opere concernenti la ginecologia, la dietologia, la fitoterapia, la più celebre è quella degli Aforismi. Il più celebre dei discepoli di Mesué fu Giovannizio (809-873), un nestoriano di Hira, oggi Herat in Afghanistan: perfetto conoscitore del greco e dell’arabo tradusse in questa lingua tutta l’opera ippocratica, la materia medica di Dioscoride e maestri bizantini come Oribasio e Paolo di Egina. Tra le opere originali non va dimenticato il noto Questioni della medicina. Uno dei meriti di Giovannizio fu la grande attenzione alla questione terminologica tanto che molto del successivo vocabolario tecnico latino proviene dal greco e dal persiano dopo il passaggio attraverso l’arabo. Serapione, vissuto nel IX secolo, era un cristiano di Siria ed in siriano scrisse tutte le sue opere tra cui un Aggregator scritto sulla traccia del bizantino Alessandro di Tralles nel quale cerca di conciliare le concezioni della medicina del suo tempo con quelle del mondo greco: non mancano tuttavia nella sua opera osservazioni del tutto originali come la descrizione di una malattia esantematica da lui chiamata essara, di alcune forme di cefalea ed osservazioni sulla lebbra e sull’isteria.

L’APOGEO

Dopo la grande espansione la cultura araba rivestì un ruolo di primaria importanza in tutto il bacino mediterraneo spingendosi fino all’Asia centrale. Le principali città - Bagdad, Samarcanda, Damasco in oriente, Cordova, Siviglia, Toledo in Spagna - erano provviste di grandi e ricche biblioteche e, per quel che ci riguarda, di importanti ospedali. L’atmosfera culturale che pervade il mondo islamico ormai affrancato dalla soggezione nei confronti dei maestri dell’antichità, verso i quali tuttavia non vennero mai meno il rispetto e la venerazione, permette ai medici arabi (citiamo, tra i più importanti, Rhazes, Avicenna, Isacco Ebreo, Albucasi, Abenguefit) di acquisire un’autonomia, un’indipendenza, una libertà di giudizio che provengono loro dall’osservazione personale attenta ed anche da una certa attività di ricerca, di sperimentazione. Rhazes - Abu Bakr Mohammed ibn Zakariah - era nato nell’850 a Raj, nel Tabaristan, una regione della Persia.
Dopo un breve soggiorno nell’ospedale della sua città del quale divenne sovrintendente si trasferì a Bagdad nella cui scuola medica si era formato e dove acquistò gran fama non soltanto come medico ma anche come musicista, filosofo, poeta, ed alchimista. Tra le opere principali quella che è conosciuta come Il Continente contiene pressoché tutto il sapere medico islamico dell’epoca ed è rimasta incompiuta alla morte dell’autore: fu portata a termine dagli allievi. Tradotta in latino circa quattrocento anni dopo dal medico ebreo Farag ben Salem di Girgenti per ordine di Carlo d’Angiò (il manoscritto si trova all’Escorial) fu dato alle stampe - dopo l’invenzione di Gutenberg - a Brescia, nel 1486 e costituisce il più grande incunabolo esistente, circa dieci chilogrammi (1). Un altra opera, altrettanto se non più nota, di Rhazes va sotto il titolo, latino, di Liber medicinalis Almansoris, dedicato al califfo di Bagdad, Almansur: in dieci libri tratta di vari temi concernenti la medicina dei quali i più noti ed importanti sono il settimo e il nono, rispettivamente dedicati alla terapia chirurgica ed a quella medica. In un altro trattato, il Libro della pestilenza, parla diffusamente del vaiolo. Rhazes, nonostante la grande mole della trattatistica, è essenzialmente un medico pratico, ippocraticamente sorretto da una grande stima per il ragionamento clinico più che dall’acquiescenza alla sacralità del testo: “... tutto quanto sta scritto nei libri - scrive nel Liber Almansoris - vale molto meno dell’esperienza di un medico che pensa e ragiona.” Nel 980, poco più di cent’anni dopo Rhazes, nasce, non lontano da Bukhara, il più celebrato medico, filosofo, scienziato di tutta l’era islamica: Abu Alì al Hussein ibn Abdallah ibn Sina, noto nell’occidente cristiano come Avicenna. A dieci anni conosceva il Corano a memoria. A sedici anni era medico, senza aver trascurato peraltro la grammatica, la retorica, la geometria, l’astronomia, la filosofia. Nel corso di una vita agitatissima - insegnante di scienze a Gorgan, giurista a Gurganj, amministratore a Ravy e Hamadan, medico presso varie corti, fu prigioniero, fuggiasco, soldato - scrisse qualcosa come duecentosettanta opere in ogni condizione possibile: in carcere, a cavallo durante le campagne militari, nel corso di pranzi e feste.
L’opera di gran lunga più conosciuta, il Canone della Medicina (Kitab al Qanun), è divisa in cinque libri del quali il primo tratta dei principi generali della medicina, il secondo tratta dei semplici, il terzo delle malattie locali, il quarto delle malattie generali e l’ultimo della composizione e della preparazione dei medicinali. Il trattato costituisce una sintesi ragionata del pensiero medico e della dottrina dei maestri dell’antichità - Ippocrate, Galeno, Dioscoride - ma anche dei suoi predecessori arabi, soprattutto Rhazes. Col nome di Albucasis è conosciuto nel mondo cristiano Abu’l Qasim az Zahrawi, nato a Zahra, presso Cordova, probabilmente nel 1013 e morto nel 1106, che Fabrizio d’Acquapendente considerava il più insigne dei chirurghi di tutta l’antichità (2): la sua autorità nel campo della chirurgia infatti non è minore di quella di Avicenna nel campo della medicina. L’opera principale di Albucasis, Al Tasrif - letteralmente “Il coniugare”- tradotto da Simone da Genova col titolo di Liber Servitoris, riguarda non soltanto la chirurgia ma anche la medicina e la farmacologia (i capitoli dedicati alla chirurgia sono però tradotti da Gerardo da Cremona) e costituiscono un prezioso documento non soltanto delle conoscenze chirurgiche dell’epoca e degli apporti personali dell’autore, ma anche, attraverso le numerose illustrazioni, dello strumentario chirurgico arabo.
Tra i grandi medici di questo periodo vanno ricordati Abenguefit (Ibn Wafid, 977 ca. - 1074), attivo a Toledo, autore di un De medicamentis simplicibus e Alì ibn Abbas al Magiusi (sec. X), autore di un trattato - Al Malaki che, accanto ad alcune nozioni assai ingenue ai nostri occhi, contiene osservazioni di semeiotica e di dietetica di grande puntualità che, nel mondo arabo, fu considerato il principale testo medico fino alla pubblicazione del Canone e tradotto peraltro senza nominare l’autore da Costantino Africano della Scuola salernitana col titolo di Pantechne.

IL PERIODO DELLA DECADENZA

Il lento decadere della potenza, della civiltà e della cultura islamica nel mondo mediterraneo coinvolse, nel lungo tramonto, anche la medicina: tuttavia, anche in questo periodo di declino non mancano figure di altissimo livello: basti ricordare Avenzoar, Maimonide, Averroè, per citare solo i maggiori. Ibn Zuhr o Avenzoar nacque a Siviglia nel 1113 e fu chiamato “il Saggio”. Spirito libero e poco incline al pregiudizio filosofico o di scuola ebbe il coraggio di opporsi all’autorità del pensiero di Avicenna e dello stesso Galeno.
Medico essenzialmente pratico, ebbe un alto senso della dignità del medico alla quale riteneva non si addicesse la preparazione dei medicamenti e, soprattutto, la pratica della chirurgia, principio questo che fu accolto dalla medicina occidentale che superò assai tardi questa distinzione, non senza danno per le sue stesse possibilità di progredire. L’impostazione eminentemente pratica della professione non gli impedì la ricerca e la riflessione scientifica che trovarono posto in un’opera - Al Taysir - nel quale sono accuratamente descritte numerose malattie come le otiti, l’ascesso mediastinico, la pericardite essudativa. Fra le sue scoperte originali, quella dell’acaro della scabbia. Morì nel 1162. Avenzoar ebbe un allievo d’eccezione, Abu’l Walid Muhammad ibn Ruschd: Averroé. Nato a Cordova nel 1126 fu dapprima studioso di legislazione islamica e prestò servizio come giudice a Cordova e a Siviglia. Grande studioso dei filosofi greci, redasse importanti commentari alle opere aristoteliche nei quali cercò di individuare il pensiero originale del filosofo di Stagira celato sotto l’interpretazione di Avicenna, inquinata dal neoplatonismo. Le sue vedute gli valsero aspre critiche e, nell’ultima parte della vita, anche l’esilio mentre le sue opere vennero date alle fiamme: ma prima di morire, nel 1198, ebbe la soddisfazione di vedersi riabilitato dal sovrano almohade (3).
Il suo pensiero filosofico, paradossalmente, influenzò assai più il pensiero cristiano che il pensiero arabo. L’opera medica più importante, il Kitab al Kullyat - Libro universale della medicina, impropriamente tradotto come Colliget - consta di sette libri che trattano di anatomia, dell’uomo sano, della sintomatologia, della dietetica, delle droghe, dell’igiene, della terapia ed era destinato ad integrarsi con l’Al Taysir di Avenzoar per formare un solo trattato che doveva concettualmente opporsi al Qanun di Avicenna. In molte occasione, oltre che con le concezioni di Avicenna, ruppe anche con la tradizione galenica come quando, per esempio, riconosce alla retina il ruolo di struttura deputata alla sensazione visiva invece che al cristallino.
L’ultimo dei grandi medici di questo periodo, Maimonide, ebbe un’esistenza travagliata: ebreo di Cordova dov’era nato nel 1135, grande filosofo e talmudista, Imran ibn Ubaidalla Musa ibn Maimun dovette abbandonare la città con la famiglia a causa della persecuzione del monarca almohade insolitamente intollerante verso altre religioni e andò peregrinando per tutta la Spagna, il Marocco, la Palestina per stabilirsi definitivamente a Fustat, la città vecchia del Cairo, dove rimase fino alla morte nel 1204. Non iniziò l’esercizio della medicina che a 31 anni, nel 1166, quando la morte del padre e di un fratello lo obbligarono alla professione per guadagnarsi da vivere.
In questa acquistò presto grande fama e, già nel 1174, fu nominato medico alla corte di Saladino. Non cessò tuttavia gli studi filosofici e talmudici, tanto da diventare il capo religioso della comunità ebraica del Cairo. Morì nel 1204 e fu sepolto, secondo il suo desiderio, a Tiberiade dove ancor oggi la sua tomba è meta di pellegrinaggio. Maimonide non aggiunse praticamente nulla alle conoscenze sanitarie del suo tempo (ma occorre dire che l’opera medica è stata assai meno studiata di quella religiosa e filosofica) ma condivise e sviluppò la critica a Galeno già avanzata da Avicenna e dallo stesso Averroé.

IL CONTRIBUTO DELLA CULTURA ARABA AL PENSIERO MEDICO

Alla civiltà islamica si attribuisce di solito il merito di aver costituito un ponte tra l’antichità classica ed il risveglio culturale del rinascimento, quasi un by-pass attraverso i secoli bui del medioevo, e non vi sono dubbi che, almeno per ciò che riguarda la filosofia, sia stato in buona parte così. La medicina - che si fondava, in gran parte almeno assai più su principi filosofici che su di un’affidabile elaborazione dei peraltro non sistematici dati di osservazione - non fece ovviamente eccezione: la medicina araba fu fondamentalmente una medicina classica rielaborata.
Soltanto nel primo periodo infatti vi furono tentativi (ad opera di Serapione soprattutto) di sintesi del sapere greco che si andava acquisendo attraverso il grande fervore del lavoro di traduzione dei testi classici con le prescrizioni coraniche e con la tradizione araba: nei secoli seguenti la tradizione non ebbe speciale rilievo come elemento costitutivo delle conoscenze mediche e lo stesso Maimonide non fa riferimento alla tradizione ebraica più di quanto gli arabi non la facciano alla propria.
Tuttavia non vi fu soltanto diligente conservazione e rielaborazione - anche critica come quella di Avenzoar o di Maimonide - del sapere antico: agli arabi si devono osservazioni, scoperte e formulazioni scientifiche originali anche di grande rilievo.
Basti, a questo proposito, pensare alla formulazione di Ebenefis (Ibn al Nafis: Damasco, ? - Il Cairo, 1288), particolarmente apprezzata dal Maggi, della circolazione polmonare in disaccordo totale con la concezione galenica. La teoria, espressa nello Shahr al Qanun, un commentario al Canone di Avicenna, fu conosciuta in occidente attraverso la traduzione di Andrea Alpago, morto nel 1520 ed uscita postuma nel 1547 (4). Tuttavia, almeno secondo l’opinione del Pazzini (5), essa non fu nota a Miguel Servet che la riformulò nel suo Christianismi Restitutio nel 1553 (un testo di teologia le cui copie furono bruciate sul rogo insieme al loro autore) in termini analoghi a quelli di Ibn al Nafis e forse neppure a Realdo Colombo e a Juan Valverde, che espressero nei medesimi termini quel concetto: ma abbiano o no Servet, Colombo e Valverde conosciuto l’opera di Ebenefis, questa precedette la loro di circa tre secoli.

CONFUSIONI MEDIOEVALI

Il medioevo è epoca di non rare confusioni. Mesué il vecchio fu noto in occidente anche come Giovanni Damasceno per il nome - Yahyà o Yuhannah - e per la sua provenienza: Damasco, in Siria. Per questa ragione fu anche scambiato con san Giovanni Damasceno al quale, a causa dell’equivoco, furono attribuiti inesistenti meriti sanitari. Ma anche un altro siriano - Yahyà o Yuhannah ibn Seraphiun, Serapione - fu conosciuto in Europa come Giovanni Damasceno e confuso tanto col santo che con Mesué.

SAGACIA, BONTÀ E
SVENTURE DI RHAZES

Pare che per scegliere il luogo più salubre dove costruire un ospedale a Bagdad, il grande medico persiano Rhazes avesse esposto dei pezzi di carne in vari luoghi della città ed avesse scelto, come sede del futuro nosocomio, il posto dove, qualche giorno dopo, la carne era nello stato di meno avanzata putrefazione.
Oltre che dotato di grande sagacia, Rhazes era uomo di grande bontà. Pur avendo accumulato una considerevole ricchezza grazie alla reputazione dalla quale era circondato, morì in miseria avendo sempre generosamente aiutato i poveri che si rivolgevano a lui. In miseria e cieco. A proposito della sua cecità si racconta - ma l’episodio non è documentato con certezza - che, avendo fallito un esperimento di alchimia alla corte del califfo di Bagdad Almansur, ne ricevesse così violente percosse alla testa da perdere la vista, forse per una cataratta traumatica.

IL CANONE
Il Canone fu impiegato, integralmente od in alcune delle sue parti, fino a tutto il seicento ed ancor oggi stupisce la precisione e la modernità di alcune descrizioni: i segni della pleurite, ad esempio (1) vengono così descritti: “...la febbre è continua (a causa della vicinanza della pleura al cuore, n.d.a.), è presente un dolore a carattere puntorio assai forte sotto le coste che, a volte, è presente solo quando il malato respira forte ... un terzo segno è la difficoltà del respiro e la sua frequenza, il quarto segno è il polso rapido e debole. Il quinto segno è la tosse, dapprima secca e poi con sputo: in questo caso vi è anche una infiammazione del polmone.”

(1) Castiglioni A: STORIA DELLA MEDICINA - Mondadori, Milano - 1948