Anno 7 - N. 19/ 2008


LA NATURA MORTA FIAMMINGA Lettura di un dipinto

Un affascinante mondo silente e misterioso svelato dalla lettura dei simboli

Il genere “natura morta”, disprezzato o trascurato dai grandi storici e critici d’arte, sia del tempo che moderni, relegato alla funzione decorativa di sale da pranzo e tinelli, si rivelerà, dopo gli approfonditi e necessari studi, un genere di grandi contenuti e di grande bellezza.

di Giuseppina Malfatti Angelantoni



Natura Morta (1608)

Osias Beert (Anversa, 1580 - Anversa, 1624)

Madrid, Museo del Prado

Tra la fine del’500 e gli inizi del ‘600 nasce, nei Paesi europei sotto la Corona di Spagna, un nuovo genere di pittura: la Natura Morta.
Si tratta di quadri, su tavola, tela o anche rame, di varie dimensioni, nei quali non è più la figura umana a dominare, come nel Manierismo cinquecentesco, bensì i fiori, la frutta, le piante, gli animali e gli oggetti, elevati alla dignità e al ruolo di soggetto autonomo. La Natura Morta nasce contemporaneamente in Lombardia e nei Paesi Bassi meridionali, le Fiandre, per diffondersi nel breve volgere di tempo in tutti gli altri Paesi d’Europa e dell’America Latina. Il luogo di maggior produzione rimasero però le Fiandre, la terra dei Primitivi fiamminghi, che erano stati i pittori più attenti alla descrizione minuziosa della realtà, dando vita a quella sintesi straordinaria di naturalismo e simbolismo che è l’essenza stessa della pittura fiamminga. Furono centinaia e centinaia gli artisti che, fra la fine del ‘500 e gli inizi del’700, nei tanti atelier di Anversa, Bruges e Bruxelles, dipinsero per soddisfare le richieste di una sempre crescente clientela conquistata dalla bellezza, dalla novità e dalla ricchezza “concettuale” di opere che, per il loro costo mediamente accessibile, permisero a molte classi sociali di possedere dipinti che, per la prima volta nella storia della cultura figurativa e del costume, vennero appesi alle pareti di ambienti domestici. Molte di queste opere venivano esportate in altri Paesi favorendo la diffusione di questo gusto e la nascita di scuole locali.
La Natura Morta al suo apparire, e fino al 1650 circa, non ebbe una denominazione propria, veniva indicata come: quadro con fiori, con frutta o con tavole apparecchiate, poi in olandese fu chiamata “Stil Leven” ovvero “Natura Immobile” o “Natura in Posa”. I francesi tradussero questa denominazione con “Nature Morte”, dall’accezione vagamente negativa, che in italiano venne tradotta alla lettera.
La “natura morta” come rappresentazione artistica di cose inanimate era già presente nella pittura antica di età classica; sono molti i dipinti murali ritrovati a Roma o Pompei nei quali possiamo ammirare trasparenti ed eleganti coppe di vetro con frutta, o complesse composizioni floreali. E sono molte anche le fonti letterarie, quali Plinio il Vecchio, nelle quali si parla di pittura a trompe-l’oeil di “natura morta “con cucine, mercati e oggetti vari, spesso descritta come situata all’interno di audaci e correttissime strutture prospettiche. Si è anche pensato che i pittori del nostro ‘300, Giotto e Taddeo Gaddi in particolare, avessero tratto ispirazione da queste opere letterarie antiche per certi dettagli di “natura morta” nei loro dipinti. Non solo, potremmo anche già vedere questo genere nei piccoli affreschi che simulano nicchie porta-oggetti sacri sulle pareti dell’abside di alcune chiese fiorentine.
Notevole è anche la “natura morta” con strumenti musicali o scientifici, in elaborati scorci prospettico-architettonici, che appare nelle tarsie lignee di stalli e sportelli nei cori di chiese italiane rinascimentali a Modena, Todi, Urbino ed altre città, il cui disegno poteva essere opera di grandi pittori del tempo.
Molti eccellenti brani di” natura morta” si cominciano comunque a vedere già nella pittura dei Primitivi fiamminghi sia come dettagli di un’opera complessa, sia come “verso” di un ritratto. Nel primo caso il riferimento è al magnifico vaso di maiolica con iris e bicchiere di vetro con aquilegia nel primissimo piano del grande Trittico Portinari di Hugo Van der Goes agli Uffizi, nel secondo caso il riferimento è al vaso, con gli stessi fiori del Trittico Portinari, nel famoso “Ritratto d’Uomo” di Hans Memling della collezione Thyssen Bornemisza a Madrid. In entrambi i dipinti i particolari citati hanno il forte ed evidente valore simbolico di prefigurazione della Passione di Cristo e di redenzione dell’umanità.
Le stesse miniature, fatte di elementi naturalistici, ai bordi delle pagine dei “Libri d’Ore” franco-fiamminghi, possono essere considerate un passaggio dalla pittura religiosa alla “natura morta”.
Fino alla metà del ‘900 circa i dipinti di “natura morta” in genere, e di composizioni floreali in particolare, erano considerati dalla critica ufficiale solo come opere decorative prive di valore artistico e contenutistico, non avevano avuto mostre dedicate e non erano stati oggetto di studi approfonditi. Il mercato invece aveva sempre apprezzato queste opere che nei musei erano ingiustamente tenute nelle riserve. La situazione è cambiata quando, in ambito nord europeo, si sono cominciati a studiare scritti di spiritualità del ‘600 e a leggere con più attenzione i testi apposti sulle incisioni tratte da alcuni di questi dipinti. Ci si è resi conto allora della dominante valenza simbolica e della ricchezza contenutistica di questo genere di pittura che nel momento in cui era praticato erano facilmente comprensibili, ma che nel tempo, persa la chiave di lettura, erano diventate del tutto sconosciute, lasciando al quadro solo una funzione decorativa.
Un contributo alla comprensione della “natura morta” è stato dato anche dallo studio di scritti dei Padri della Chiesa, di testi di mistici medioevali, di Enciclopedisti e di raccolte di emblemi. Il quadro di “natura morta” è apparso allora, con la sua atmosfera fatta di intimismo e musicalità sommessa, una “vanitas” che doveva ricordare al riguardante la transitorietà e la fragilità dell’esistenza in tempi di durissime condizioni di vita tra guerre, carestie e pestilenze. I fiori con qualche petalo appassito e gli oggetti di fragile vetro dovevano sottolineare questo concetto. La lettura di queste “vanitates” però non era tutta al negativo: la presenza dei molti simboli cristologici e mariani donava speranza e conforto. Ogni fiore, ogni frutto ed ogni oggetto aveva il suo significato, dal pane e dal vino, noti simboli eucaristici, alle ciliegie frutti del Paradiso, ai vari fiori: tulipani, rose, peonie, anemoni, crochi, ranuncoli, ciascuno con il suo significato preciso. Alcuni di questi fiori, come i tulipani e le peonie, erano appena stati importati in Europa, e il loro apparire numerosi nei dipinti testimonia anche l’interesse di natura botanica da parte dei pittori che, a poco a poco, col passare del tempo, soprattutto in area olandese, li rappresenteranno con uno spirito diverso, da ricerca scientifica, proprio in rapporto alle scoperte e ai viaggi nelle terre lontane. Allora i dipinti si trasformeranno quasi in repertori di flora e fauna esotica molto apprezzati.
Gli autori di “natura morta” erano spesso dei religiosi, soprattutto gesuiti, come il fiammingo Daniel Seghers o lo spagnolo Juan Sanchez Cotàn, ma spesso erano anche protestanti, come i fiamminghi fuggiti in Olanda o Germania per motivi religiosi. Ciò conferma la ricchezza spirituale e di verità di fede nascoste, o da nascondere, in questo genere di pittura, fatto di simboli dissimulati, apparentemente adatto solo alla decorazione di palazzi e dimore.
Nelle composizioni floreali, per la disposizione geometrica dei fiori e l’uso di colori primari, il rosso, il blu e il giallo - considerati fin dal medioevo simbolo della purezza massima - l’allegoria è dominante, ma ciò non toglie mai l’intenso ed emozionante esito estetico. Attraverso un’immagine di bellezza il dipinto fiammingo di “natura morta” ci conduce al disvelamento di grandi verità.
Nelle Fiandre si diffonde in particolare il genere mazzo di fiori e ghirlande, circondati da un brulicante mondo di piccoli insetti che aggiungono simboli ai simboli, secondo schemi e programmi di natura etica e religiosa.
Il massimo rappresentante di questa pittura è Jan Brueghel, detto anche Brueghel dei Velluti o degli Inferni, che realizza per il raffinato cardinale Federico Borromeo, fondatore del’Ambrosiana, alcune fra le opere più belle e significative di questo genere, che ancora arricchiscono le collezioni milanesi. Jan era il figlio secondogenito del grande Pieter Bruegel il Vecchio; nato nel 1568, l’anno prima della morte del padre, era stato educato alla pittura dalla nonna materna, la famosa e autoritaria autrice di miniature Mayken Verhulst, che era stata a Bruxelles l’anima dell’atelier del marito Pieter Cock d’Alost e del riluttante genero Pieter Bruegel. L’incontro di Jan col cardinale milanese era avvenuto a Roma, in modo inconsueto. Il giovane pittore fiammingo, che faceva parte della vivace e rissosa colonia di pittori fiamminghi e lombardi che vivevano fra via Margutta e via del Babuino, era finito in carcere e da lì lo aveva tratto il cardinale Borromeo che in quegli anni era presente e attivo nei circoli culturali ed artistici romani, fondatore fra l’altro dell’ Accademia di San Luca. Era il 1593, forse il Caravaggio aveva già realizzato la sua affascinante “Fiscella” e l’altro lombardo, Ambrogio Figino, il suo” Piatto di Pesche”, che sono in assoluto, insieme alla “Natura Morta” di Sanchez Cotàn, le prime testimonianze di questo genere pittorico. La “natura morta”, va ribadito, nasce nelle terre soggette alla Spagna, in ambiente controriformistico ad opera di artisti che sono, e questo per la” natura morta” si ripeterà spesso, dei religiosi o artisti legati ad un ambiente fortemente permeato di spiritualità come era quello lombardo, rinnovato e reso fecondo da San Carlo Borromeo.
Quando nel 1595 il cardinale Federico, nominato arcivescovo di Milano, rientrerà nella sua città, lo seguirà anche il giovane fiammingo ma, poiché il cardinale è costretto dopo solo un anno a rifugiarsi a Roma per l’ostilità del governatore spagnolo Velasco, Jan Brueghel torna nelle Fiandre, ad Anversa, dove darà avvio ad una fiorente bottega d’arte collegata a quella di Rubens col quale fonda la società dei Santi Pietro e Paolo, cioè dei pittori che erano stati in Italia. Allorché, finalmente, nel 1603 Federico Borromeo potrà prendere possesso della sua cattedra arcivescovile a Milano, chiederà a Jan Brueghel di raggiungerlo, ma il pittore, ormai famoso in patria e ben introdotto nella corte dei Reggenti Isabella Clara Eugenia e Alberto d’Asburgo, non si muoverà da Anversa, ma invierà dietro richiesta piccoli, rari e preziosi dipinti di” natura morta”, di “paesini”o illustrativi dei quattro elementi. Tra le opere più accattivanti inviate a Milano spicca il delizioso dipinto su rame “Il Topolino, le rose, il bruco e la farfalla” che nel suo naturalismo raffinato, quasi da miniatura, rappresenta le metamorfosi e la caducità della vita. Forse questo piccolo dipinto è quello definito da Jan “un bagatello”, e dal Cardinale “una gemma, e come tale l’ho pagato”. A volte il Cardinale si lamenta con Jan per l’alto costo dei dipinti che gli invia e il pittore risponde che lui lavora solo d’estate e deve attendere la fioritura delle varie specie di fiori, quindi il costo delle opere sale. Ma questa non è la verità, poiché il simpatico pittore ha accesso alle serre reali di Bruxelles e non deve attendere un anno per vedere lo sbocciare dei fiori che dovrà dipingere. Un altro suo bel dipinto all’Ambrosiana è “Fiori in un bicchiere” nel quale la natura e la disposizione dei fiori con i loro colori possono essere letti come simboli delle virtù della Vergine, diventando quindi il dipinto una vera preghiera. Un altro dipinto ancora, anch’esso su rame e di dimensioni maggiori, “Vaso di fiori con gioiello, monete e conchiglie” è una vera esplosione di colori dei tanti, svariati fiori che lo compongono. Sul piano d’appoggio del vaso di coccio che lo contiene, insieme a conchiglie esotiche, un uccellino e monete, si evidenzia il famoso gioiello di filigrana d’oro con smeraldo, donatogli dal cardinale Borromeo, presente in altre sue opere. Questo dipinto, come l’altro al Kunsthistorisches Museum di Vienna, sembra rappresentare la Creazione stessa in tutta la sua gloria, vera metafora dell’esistente, espressione in chiave estetica della riflessione sulla vita di matrice neo-platonica. Il raffinato cardinale chiede al suo pittore non immagini sacre, ma rappresentazioni metaforiche del sacro. In alcuni casi la Vergine appare in mezzo ai fiori col doppio significato della figura sacra e delle sue lodi. E spesso questi dipinti con fiori e figure vengono fatti in collaborazione con altri pittori fra i quali il grande Rubens. I rapporti fra il Cardinale e Jan Brueghel sono documentati da una precisa corrispondenza per la quale Jan si serve come segretario, per scrivere in italiano, proprio di Rubens. Di tutte le informazioni e scoperte riguardo Jan Brueghel, il cardinale Borromeo e il collezionismo del tempo siamo in debito verso una giovane ricercatrice, prematuramente scomparsa, Stefania Bedoni, il cui lavoro, pubblicato postumo, è una delle fonti più attendibili in merito. Anche i figli e i nipoti di Jan Brueghel si dedicarono alla pittura di “natura morta” fino ad Abraham Brueghel che si trasferì a Napoli dove morì alla fine del ‘600. Di lui abbiamo composizioni floreali con frutta e animali, dai colori accesi e dagli sfondi di profonda suggestione.
Altro grande autore di natura morta è il già citato Daniel Seghers del quale ammiriamo una stupenda composizioni di grandi fiori dai colori puri, in un vaso, da lui stesso denominata “Allegoria della Compagnia di Gesù”, dove ogni fiore, per la sua natura e i suoi colori indica le virtù, precipue dei Gesuiti. In Italia, dopo la nascita in Lombardia, dove ebbe protagonisti illustri quali Ambrogio Figino e la delicata, poetica Fede Galizia, “la natura morta” trionferà nel napoletano (sono sempre terre dominate dagli spagnoli!) dove pittori quali Ruoppolo e Recco produrranno magnifiche ed esuberanti composizioni di frutta su grandi alzate.
Il genere “natura morta”, disprezzato o trascurato dai grandi storici e critici d’arte, sia del tempo che moderni, relegato alla funzione decorativa di sale da pranzo e tinelli, si rivelerà quindi dopo gli approfonditi e necessari studi, un genere di grandi contenuti e di grande bellezza. Con la differenziazione dei soggetti trattati, fiori e frutta, tavole apparecchiate, elementi naturali, i cinque sensi, le quattro stagioni, e nella peculiarità delle scuole nazionali, contribuirà ad affinare il gusto di una sempre maggiore massa di fruitori, imponendosi per la bellezza, l’intimismo, la poesia con l’aggiunta del fascino dato dall’elemento magico e stregonesco che a volte vi traspare.
Forse parlando un po’ superficialmente di “natura morta” non ci rendiamo conto, o ci dimentichiamo, che a tale genere appartengono anche i radiosi “Girasoli” di Van Gogh e le silenti, polverose bottiglie di Morandi, dalla profonda poesia.