Anno 8 - N. 22/ 2009


“Nel caso di ciò che siamo stati in passato, il testimone in fondo esiste (è il corpo), ma il problema è che cambia anch'esso”

DI ALCUNE ILLUSIONI DELL'UOMO SULL'UOMO E GLI UOMINI

Nonostante tutto quello che dirò nel prosieguo, sono convinto che ogni essere umano possegga una sua realtà e permanenza e che non sia privo di significato distinguerlo dagli altri e dal resto dell'Universo. Solo che non posso dimostrarlo. È invece facile dimostrare il contrario, ed è quel che farò nelle prossime righe.

di Paolo Brera




Nonostante tutto quello che dirò nel prosieguo, sono convinto che ogni essere umano possegga una sua realtà e permanenza e che non sia privo di significato distinguerlo dagli altri e dal resto dell'Universo. Solo che non posso dimostrarlo. È invece facile dimostrare il contrario, ed è quel che farò nelle prossime righe.

Noi siamo abituati a concepire noi stessi come qualcosa di ben delimitato e di durevole. O perlomeno, così si vede la maggior parte delle persone "normali", mentre chi ha una percezione diversa è considerato un pazzo o un visionario.
Su questa terra, la base per l'affermazione egoica è il corpo. Se noi però fermiamo l'attenzione su di esso, rifiutandoci di dare alcunché per scontato, possiamo accorgerci di quanto sia fragile ciò su cui poggia la nostra affermazione di noi stessi, sebbene a un primo approccio ci sembri indiscutibile. Noi abbiamo coscienza, così ci pare, del nostro corpo e solo di esso; non sentiamo i sapori con il palato di un altro e non avvertiamo i profumi dell'aria con il naso del nostro cane. Per ciascuno di noi sembra esserci con il proprio corpo un rapporto privilegiato che non abbiamo con altre parti dell'universo.
Ma è davvero così priva di ambiguità questa situazione? La situazione reale mostra che non è possibile definire con esattezza che cosa faccia o non faccia parte del nostro corpo. L'idea che esista una differenza radicale fra ciò che è "nostro corpo" e ciò che costituisce l'ambiente esterno è in larga misura illusoria, utile in certi àmbiti di discorso ma limitativa e fuorviante in altri. La cosa è importante perché i ragionamenti che basiamo su concetti inadeguati sono a loro volta difettosi, e in verità la vita ci dà innumerevoli esempi di questo: nell'àmbito della psicologia, della società e della politica in effetti ci tocca spesso confrontarci con eventi imprevisti, con le conseguenze distorte di azioni intraprese con fini diversi da ciò che poi si realizza nei fatti.
La prima questione che voglio porre è appunto questa: dove comincia e dove finisce il nostro corpo? O in altri termini: che cosa ne fa o non ne fa parte e come facciamo a distinguere i due casi? Questo interrogativo è parte di uno più generale, che cosa faccia o non faccia parte di noi (non quindi del solo corpo, ma di ciò a cui ciascuno di noi si riferisce quando pronuncia la parola "io").
Siamo abituati a considerare il nostro corpo come la porzione dell'universo con cui intratteniamo il rapporto più stretto e speciale: un rapporto proprietario e necessario. I materialisti pensano addirittura che il nostro corpo siamo noi, con piena coestensività. Questo corrisponde alla percezione che alcune persone hanno di sé stesse: di essere cioè estese nello spazio fino a inglobare tutto intero (e soltanto) il proprio corpo. Altri comunque, e sono i più, hanno una percezione diversa. Molti uomini (fra cui io) ritengono di essere localizzati dietro i propri occhi, con il resto del loro corpo che viene ad essere una specie di appendice, fonte di sensazioni piacevoli o spiacevoli e a volte di problemi, disponibile a muoversi, quando così vogliamo, in una misura non condivisa da alcuna altra parte dell'universo. Altri esseri umani invece (sopra tutto donne) indicano come loro "luogo di residenza" altri punti all'interno del proprio corpo, per esempio quello corrispondente al cuore. Queste due percezioni di sé non esauriscono l'arco delle possibilità. Tra le possibilità alternative figura per esempio quella di chi situa la propria essenza (personalità o anima) in un punto esterno al proprio corpo, per esempio un paio di metri al di sopra di esso o in qualche recesso del sistema anellare di Saturno - entrambe queste maniere di percepirsi sono state descritte in libri come esperienze personali. Altri hanno una percezione di sé allargata, magari estesa ad uno spazio di qualche metro cubo tutto attorno al proprio corpo. Per quasi tutti, comunque, il rapporto della propria essenza con il proprio corpo è avvertito come un rapporto stretto e, almeno finché uno è in vita, necessario.
Il nostro corpo costituisce in modo così palese un sistema (nel senso della cibernetica) che tutte le sue parti ci tornano preziose. Pochi accettano volontariamente una mutilazione, e di regola per quelli che invece lo fanno ci dev'essere una motivazione molto forte: evitare la cancrena, guadagnarsi il paradiso (come quelli della confraternita russo-ortodossa degli skopcy1) oppure rimanere all'interno del codice d'onore della Yakuza giapponese, al prezzo di rinunciare a un dito.
Se un arto viene separato dal resto del corpo, cessa di farne parte, sebbene l'arto stesso in un primo tempo non sia materialmente molto diverso da ciò che era prima del distacco e possa perfino, in date condizioni, venire riattaccato al corpo per via chirurgica e in questo modo recuperare una parte delle sue funzionalità precedenti. Si può dire che nella nostra percezione è parte del nostro corpo ciò che viene organizzato e diretto dalla nostra coscienza. La materia organica ma non più vivente di un arto staccato non fa parte del nostro corpo.
Ma a ben vedere, il fatto che un pezzo di materia sia vivente non è un requisito necessario perché qualcosa sia invece considerato parte del corpo. Le unghie, i capelli, l'epidermide sono tessuto morto, però riteniamo egualmente che appartengano al nostro corpo. Quando tocchiamo qualcosa con un'unghia, ne percepiamo la consistenza più o meno come se la stessimo toccando con un'area della nostra pelle; la pelle ci dà informazioni sulla temperatura non meno di quanto non faccia la lingua. La nostra sensibilità, come hanno messo in luce le ricerche degli esistenzialisti (ad esempio Merleau-Ponty), si estende anche a un bastone o una penna che teniamo in mano: il contatto lo sentiamo all'estremità del bastone o della penna, sebbene ovviamente su di essi non ci siano terminazioni nervose, come non ci sono nelle nostre unghie.
Ci possiamo anche porre il problema di che cosa faccia o non faccia parte del nostro corpo fra tutto ciò che si trova dentro di esso. Il corpo umano non è un anello di Moebius, ha un dentro e un fuori, o almeno così ci sembra. Gli organi interni evidentemente ne fanno parte, il nostro sangue e la nostra saliva pensiamo di solito che ne facciano parte, ma che cosa possiamo dire delle lacrime che scorrono nei condotti lacrimali, degli escrementi che abbiamo nel nostro intestino, dell'urina che riempie la nostra vescica? Fanno parte dei rispettivi corpi lo sperma di un uomo, il feto che cresce nell'utero di una donna?
A ben vedere, anche il sangue è un caso più complicato di quanto non faccia pensare la sbrigativa affermazione di poche righe sopra, secondo cui è parte del corpo nelle cui vene circola. In realtà il sangue è composto da una pluralità di componenti: oltre al plasma, che è un liquido organico, vi sono cellule di varia natura che si muovono in esso liberamente, come gli eritrociti, i leucociti e le piastrine. Dobbiamo considerarli parte del nostro corpo? E i batteri più o meno patogeni che nuotano insieme a loro nel nostro sangue? Che cosa distingue un globulo bianco da uno streptococco?
Si dirà: le cellule del sangue e i batteri si distinguono per il loro codice genetico, che permette ai leucociti di identificare i secondi come invasori. Solo che a volte il nostro sistema immunitario tratta da intruse cellule che invece sul piano genetico hanno le carte in regola, dandoci il torcicollo o una qualche altra malattia autoimmune. In altri casi alcune cellule si mettono a combinare disastri, perché divengono tumorali o perché sono assoggettate da virus. Tumori e virus fanno parte del nostro corpo?
Il riferimento al codice genetico è poi fuorviante: non tutto ciò che condivide il nostro Dna fa parte del nostro corpo: i gemelli identici sono individui distinti. La continuità spaziale è un criterio importante, ma non è facile da definire con precisione.
Potremmo riservare la distinzione di essere parte del nostro corpo (e dunque di noi, perché il corpo è un sottoinsieme di ciò che chiamiamo "io") solo a ciò che è organizzato teleologicamente per tenerci in vita. Questo punto di vista non mi sembra da respingere totalmente, ma neppure credo che dobbiamo dichiararcene soddisfatti. I batteri intestinali sono utili e perfino necessari, ma non li reputiamo parte del nostro corpo (anche se di fatto li viviamo come tali). Sono invece parte di esso gli inutili e qualche volta anche dannosi diverticoli dell'intestino. Vi sono poi numerosi oggetti del mondo materiale e spirituale che sono posti all'esterno del nostro corpo ma sono utili e magari indispensabili per mantenerci in vita: per esempio un coniuge, un lavoro stabile, una bicicletta e l'atmosfera del nostro pianeta2.
Anche i limiti spaziali del nostro corpo sono assai meno nettamente delineati di quanto non ci piaccia immaginare. In ogni microsecondo fra il nostro corpo e l'ambiente circostante si verifica uno scambio di sostanze che coinvolge migliaia di atomi; nel giro di sette anni ogni singola molecola che forma il nostro corpo risulta sostituita da molecole diverse, che prima si trovavano da qualche altra parte dell'Universo, chissà dove.
Allarghiamo il discorso. Dentro di noi ci sono due ordini di cose che per certi versi fanno parte di noi ma per altri sono distinte (e a volte perfino antagoniste): i nostri geni e i nostri "memi", ossia i concetti e le idee che si agitano nella nostra mente. Molte delle azioni che compiamo ogni giorno sono fatte non nel nostro proprio interesse (o non solo, non principalmente nel nostro interesse3) ma nell'interesse dei nostri geni o dei nostri memi. Non sempre è facile distinguere i nostri interessi da quelli di simili importuni abitatori di noi stessi, ma in certi casi - quando uno muore per i propri figli o per le proprie idee - la distinzione si impone anche all'osservatore disattento.

Alla stessa stregua di quelli spaziali, anche i limiti temporali del nostro essere non sono poi indiscutibili. Noi accettiamo che quello che non c'è non possa produrre effetti, ma in realtà è possibile produrne prima di essere concepiti (ad esempio, la semplice prospettiva del nostro arrivo sulla scena del mondo può indurre i nostri genitori a porsi il problema di trovare una casa più grande o di emigrare) e molto tempo dopo la nostra morte: se uno ad esempio legge un libro di Schopenhauer, la lettura può produrre in lui mutamenti anche se l'autore è morto da un pezzo. Se vogliamo un esempio più frivolo, una fotografia di Marilyn Monroe può avere sensibili effetti sulle persone di sesso maschile a cui capita fra le mani4.
La stessa persistenza nel tempo di ciò che chiamiamo "io" può essere revocata in dubbio. In che senso io che scrivo sono la stessa cosa di ciò che ero all'età di due anni? Neanche un atomo del mio corpo di allora è rimasto intrepido al suo posto nelle battaglie che ho dovuto combattere nel corso degli anni successivi; la forma del mio corpo e buona parte se non proprio tutte le proprietà fisiche di esso sono cambiate; le mie reazioni agli stimoli esterni sono diverse; sono mutati i miei fini, le mie idee, la mia capacità di elaborarle; conosco lingue che allora non conoscevo; e la rete dei rapporti sociali e affettivi in cui sono inserito oggi è completamente diversa da quella della mia prima infanzia5.
Quello che si può forse dire è che c'è stata una sorta di "staffetta", un'evoluzione in cui alcuni elementi, a guisa di testimone, sono passati nel tempo da un "corridore" all'altro. La continuità dell'io sarebbe in un certo senso rappresentata dalla memoria di ciò che è stato vissuto. Bisogna però osservare che la memoria è molto imperfetta: anch'essa cambia nel tempo e in certi casi può cancellarsi del tutto. E per di più, se bastasse la memoria per costituire un'identità, chiunque creda in un Dio personale dovrebbe concludere di essere lui Dio, perché nessuno potrebbe avere del suo passato una memoria migliore di quella che ne ha Dio.
In realtà, affermare la continuità fra ciò che eravamo in passato e ciò che siamo adesso si espone alle stesse critiche della dottrina buddista che afferma la continuità di ciascuno di noi con le sue vite precedenti, sebbene di esse non vi sia nessun ricordo né alcun passaggio di un qualche "testimone" materiale6. Nel caso di ciò che siamo stati in passato, il testimone in fondo esiste (è il corpo), ma il problema è che cambia anch'esso.
La risposta della fenomenologia a questo (per esempio, in Jean-Paul Sartre) consiste nel ritenere il per-sé (l'individuo) libero in ogni momento e quindi non determinato dal suo passato, alla stessa stregua di una successione numerica di cui non è mai possibile determinare l'elemento successivo conoscendo un numero finito di elementi precedenti7. Solo quando una vita si conclude il per-sé diventa un in-sé e la logica delle sue azioni risulta completamente determinata e immodificabile8.
Come cómpito a casa per chi non ha già di meglio da fare, mi piace domandare quali sono le conseguenze logiche della non continuità dell'individuo su argomenti come la pena di morte, il perdono e la tolleranza.

A questo punto mi preme però allargare il discorso agli enti per così dire "plurali". Se per ciascun singolo essere umano è impossibile dire con esattezza dove inizi e dove finisca nel tempo e nello spazio, che cosa succede quando dal considerare i singoli si passa a considerare più d'uno di essi, raggruppando gli individui in insiemi?
Mettiamola però in modo più provocatorio. Prendiamo queste due affermazioni significative:

"I tedeschi non hanno mai cercato di sterminare gli ebrei".
e
"Gli ebrei non hanno crocifisso Gesù Cristo".

Gli storici revisionisti sottoscrivono senz'altro la prima, e i musulmani la seconda (il Corano infatti asserisce che Cristo non fu mai crocifisso). A scanso di possibili incomprensioni o perfino accuse gratuite, preciserò subito che io invece non intendo negare che vi siano stati campi dove avveniva uno sterminio organizzato di persone identificate dalla loro religione ebraica né che Gesù di Nazareth sia stato condannato a morte dal Sinedrio e giustiziato. Non ho assistito né all'uno né all'altro evento ma non ho motivo di dubitare della versione dei fatti che ho a suo tempo ricevuto.
Il problema risiede semplicemente nell'attribuzione di quelle azioni ad enti plurali: i tedeschi, gli ebrei.
Che cos'è un tedesco, che cos'è un ebreo? Per la più elementare insiemistica, definire l'uno o l'altro di questi due insiemi (dei tedeschi, degli ebrei) significa identificare un certo numero di proprietà il cui possesso caratterizzi tutti e soli i tedeschi oppure tutti e soli gli ebrei. Una volta individuati gli elementi che formano i due insiemi, le due frasi viste sopra - dal punto di vista della stretta logica - risultano vere se trovo almeno un tedesco che non ha cercato di sterminare gli ebrei e almeno un ebreo che non ha avuto alcuna parte nella crocifissione di Cristo. Francamente, non c'è nulla di più facile.
Ma al diavolo la stretta logica, la mia intenzione non è semplicemente quella di smentire le affermazioni opposte a quelle riportate sopra, io le voglio distruggere. Per questo è opportuno soffermarvisi sopra qualche istante di più.
Prima cosa, di che stiamo parlando? Che cos'è un tedesco, che cos'è un ebreo? Definiamo almeno alcune delle proprietà distintive. Per prima cosa, devono abitare il mondo materiale: il giovane Werther non è un tedesco e Süss l'Ebreo non è un ebreo, perché entrambi sono personaggi di fantasia. Secondo, devono essere umani: un pastore tedesco non è un tedesco e D** non è ebreo, anche se a sentire i cabalisti la sua lingua era l'ebraico. Il che ci porta al terzo criterio: occorre che i candidati alla tedeschità o all'ebraicità parlino un idioma con certe caratteristiche (o uno di un certo numero di idiomi che vorremo elencare). Per opposizione all'algido mondo della logica, nella realtà non è scontato un accordo generale su quali siano queste qualità distintive, e anche una volta che siano state individuate, non sarà per niente facile accertare se siano o meno presenti in un certo individuo. Ma possiamo accontentarci di una decisione operativa: ci serve, dopotutto, solo arrivare a definire due insiemi sui quali sia possibile lavorare. Nella vita di tutti i giorni del resto non solo ci si accontenta il più delle volte di questo, ma anche non ci si dà troppo pensiero di portare alla luce esattamente quali siano i concetti applicati per determinare le proprietà distintive degli insiemi. Li si dà più o meno per scontati, perché in caso contrario non la si finirebbe più di sottilizzare e non sarebbe più possibile comunicare.
In ogni caso, qui almeno una ulteriore sottilizzazione sembra necessaria:
In quante dimensioni operiamo?
Sono tre, o quattro? Le sole dimensioni spaziali, oppure anche il tempo? Detto in altri termini: coloro che definiamo "i tedeschi" devono essere vivi? O possiamo imbarcare sulla grande nave anche i morti, includendo cioè anche i vari Herr Braun e Frau Weiß che incontriamo solo rimontando il flusso del tempo? Consideriamo che noi possiamo agire solo su coloro che sono in vita. Con i morti, la nostra relazione è unidirezionale: noi possiamo leggere Nietzsche, mentre Nietzsche non può leggere noi. Nietzsche può cambiarmi (l'ha fatto), io non posso cambiare Nietzsche.
A questo punto saltiamo il fosso. Chiamiamo tedeschi (in questo contesto, almeno) solo i tedeschi viventi. E allora vediamo subito che solo una minoranza davvero infima di essi, cioè una parte di quei pochi che erano già vivi, diciamo, nel 1933, ha avuto qualcosa a che fare con lo sterminio degli ebrei che i libri di storia spesso rimproverano "ai tedeschi".
Per motivi analoghi, anzi a titolo ancora più forte, nessuno che sia oggi in vita ha partecipato agli eventi svoltisi sul Golgota in quel lontano anno 33. Perciò gli ebrei non hanno mai messo sulla croce Gesù Cristo.
L'applicazione a simili enti plurali di giudizi ispirati a "fatti" come quelli descritti dalle affermazioni opposte a quelle sciorinate sopra è sempre foriera di problemi, e rappresenta una vistosa illogicità del modo di ragionare corrente. È difficile identificare chi appartenga a questo o a quello fra gli enti plurali, tanto più che non si nasce tedeschi e non si nasce ebrei; non si nasce cristiani né buddisti, né comunisti né fascisti, né italiani né padani: si nasce esseri umani e basta. Tutto il resto, di fatto, viene dopo.
Però chi ci ha già schedati alla nascita estende automaticamente anche a noi i giudizi al plurale che pronuncia riguardo a tedeschi, ebrei, cristiani, comunisti o fascisti. Nell'Orlando Furioso, il vittorioso Carlo Magno passa a fil di spada i saraceni andandoli a cercare "fin nelle culle": solo che nelle culle non ci sono saraceni, ci sono solo bambini di pochi mesi. Nell'Ucraina dell'holodomor (la grande carestia provocata dalla collettivizzazione staliniana dell'agricoltura negli anni Trenta) un corrispondente occidentale-rara-avis aveva notato per le strade di un villaggio diversi bambini spaventosamente denutriti: chiestane spiegazione, si era sentito rispondere che erano "figli di kulaki", cioè di contadini ricchi che i bolscevichi consideravano "nemici di classe", e quindi, pareva di capire, potevano essere lasciati morire di fame. A conseguenze di tal fatta porta l'uso disinvolto dei plurali.
Ma la nostra follia fa anche un passo più in là: a partire dagli esseri umani, costruisce mentalmente enti collettivi ai quali finisce per attribuire caratteristiche antropomorfiche.
Dall'idea di "tedeschi" si passa a quella di "Germania", dagli ebrei all'ebraismo, dai comunisti all'Internazionale e dalla gente di destra alla "reazione". È quasi impossibile non compiere mai un passo concettuale del genere. E se talora può essere utile come notazione stenografica, il più delle volte un simile passo risulta fuorviante9.
Dopo esserceli inventati di sana pianta, a tali enti collettivi attribuiamo spesso una pregnanza che non posseggono affatto, e non di rado anche pensieri, intenzioni e azioni. Le conseguenze possono essere gravi. Se qualcuno pensa che al "proletariato" ineriscano certe caratteristiche, e ad esse attribuisce valore, ai suoi occhi chi vi si oppone idealmente o praticamente è "antiproletario" anche se ha fatto l'operaio per tutta la vita. Si sente anche dire, comunemente, che Forza Italia "difende idee liberali" (o, da parte degli oppositori, che "difende gli interessi di Berlusconi"), che la Russia ha interesse a coltivare buoni rapporti con la Cina, che l'Iran intende vendere caro il suo petrolio, che la Chiesa Cattolica sta esprimendo posizioni diverse da quelle di trent'anni fa. Ma tutto questo è pura illusione: Forza Italia non propugna alcuna idea, perché per avere idee bisogna essere capaci di pensare e di pensare sono capaci solo i suoi membri, mentre per propugnarle bisogna avere una volontà e anche questa è una caratteristica dei soli individui: è unicamente dalla loro interazione che nasce qualcosa che noi chiamiamo, con notazione stenografica, "Forza Italia". Ragionamenti analoghi potrebbero essere sviluppati per le altre asserzioni riportate sopra. Certo, non è privo di senso studiare un ente del genere di Forza Italia, della Russia, della Cina, dell'Iran o della Chiesa Cattolica: basta ricordarsi che non si tratta di esseri umani, e dunque parlando in modo proprio non si può dire che pensano, che hanno interessi o che agiscono, perché tutte queste belle cose le fanno solo gli esseri viventi. Le leggi che governano l'evoluzione di queste entità collettive non sono quelle della psicologia ma quelle della storia.
La rappresentazione antropomorfica delle entità collettive ha come risultato che nei loro comportamenti10 spesso vediamo emergere apparenti assurdità. Se la Germania nazista voleva vincere la guerra, perché attaccò l'Unione Sovietica, tornando a quella lotta su due fronti che era da decenni l'incubo dello Stato Maggiore tedesco11? La risposta, semplicissima, è che la Germania non voleva vincere la guerra, perché la Germania non è un individuo e la volontà è prerogativa dei soli individui; né attaccò l'Unione Sovietica, perché solo gli individui agiscono. Allo stesso modo non ha senso accusare gli Stati Uniti di ciò che hanno fatto e stanno facendo in Iraq, perché gli Stati Uniti non hanno un'anima che possa essere chiamata a rispondere delle proprie azioni. E a parlare con maggiore precisione, anche qui non sono gli Stati Uniti a compiere quelle azioni, comunque le si voglia giudicare, ma gli individui che insieme formano l'ente collettivo chiamato "Stati Uniti".
L'entità collettiva antropomorfizzata acquisisce agli occhi dei più anche un'altra caratteristica che si suole attribuire all'individuo: una che è stata già sottoposta a critica nelle pagine precedenti, cioè la continuità. Nel caso delle entità collettive, la loro continuità appare ancora più esangue di quella degli individui. I greci di oggi, per esempio, spesso si rappresentano la nazione greca come avente origine nel periodo miceneo. Però i greci di oggi non sono i discendenti dei micenei, né occupano gli stessi territori; non parlano la stessa lingua né la scrivono con lo stesso alfabeto; hanno un modo diverso di guadagnarsi la vita, un aspetto diverso, una religione diversa e una struttura sociale diversa. In che senso allora è mai possibile asserire che esista una continuità fra i greci di oggi e i micenei?
Una continuità di qualche genere in effetti c'è, ma è molto debole: è come quella di una fiammella che percorre una miccia fatta di materiali diversi, cambiando dunque forma, colore e velocità man mano che avanza. In ciascun punto della miccia la fiamma è accesa da quella che ardeva nel punto precedente e a sua volta dà fuoco a quella che arderà nel successivo. In due punti vicini le relative fiammelle si assomigliano molto, ma da un capo all'altro della miccia possono essere ben differenti… Questo tipo di continuità è analogo a quello degli individui: è ben difficile riconoscere il neonato nel novantenne.
Come nel caso di un corpo umano, ma in misura ancora maggiore, si fatica molto a definire che cosa (chi) faccia parte o meno di un determinato ente collettivo. Durante la seconda guerra mondiale, quando in Europa la questione di chi fosse ebreo o tedesco assumeva un'importanza cruciale per molte persone, vi furono diversi casi dubbi: dal gerarca nazista Jakobi che aveva tre nonni ebrei12, al capitano Levi della Wehrmacht che si fermava a due, e poi a molti altri, come colui il cui ritratto comparve su una rivista della Hitlerjugend con la didascalia "Il perfetto soldato tedesco" e che in realtà aveva nelle vene il 50% di sangue "non ariano" (la madre era ebrea13). Di fronte a casi come questo, la possibilità per l'individuo di essere dichiarato ariano nonostante la presenza di ascendenti che tali non erano era demandata a un ufficio alle dirette dipendenze di Hitler, ed è agli atti una singolare dichiarazione del Führer: "Wer Jude ist, bestimme ich", cioè "Chi sia o non sia ebreo lo stabilisco io".
La frase di Hitler illustra bene quel tanto di convenzionale che inevitabilmente esiste nell'ascrivere un essere umano all'uno o all'altro ente collettivo14. Eppure la mentalità comune tende ad attribuire agli illusori enti collettivi una piena sovranità sull'individuo, il quale ne è considerato parte, che lo voglia o meno, per il solo fatto di essere nato15. Tutte le colpe, vere o presunte, e tutti i moventi veri o presunti16 dell'ente collettivo vengono con ciò stesso ascritti al singolo, senza remissione. (Ciò si verifica spesso anche per le qualità positive, certo, ma la cosa genera minori problemi.) L'illusione della continuità degli enti collettivi si associa dunque a quella della loro sostanzialità e definibilità, con le quali è legata a filo doppio, nel produrre pregiudizi e ingiustizia nei confronti di altri esseri umani. I quali sono, viceversa, gli unici a essere dotati di un'anima che risponde delle proprie azioni.