Anno 8 - N. 24/ 2009


LETTURA DI UN DIPINTO

L'ENIGMA DIETRO L'ENIGMA

"Gli ambasciatori" di Hans Holbein il giovane. da una recente lettura dei simboli la chiave di un messaggio nascosto da secoli.

di M. Giuseppina Malfatti Angelantoni



Gli Ambasciatori

Holbein, Hans, Il giovane (Augusta, 1497 - Londra, 1543)

Londra, National Gallery

Tra le tante straordinarie opere della National Gallery di Londra, una in particolare attira l'attenzione dei visitatori: è la tavola, "GLI AMBASCIATORI" di Hans Holbein il Giovane, entrata nella Galleria alla fine dell'800. Questo dipinto, firmato e datato 1533, affascina lo spettatore per l' inquietante e indefinibile aria di mistero e di silente attesa che nasce dallo sguardo fisso e malinconico dei due personaggi ritratti che, di dimensioni prossime a quelle reali, sembrano volerci coinvolgere nel loro spazio privilegiato di uomini di altissimo rango per comunicarci, in codice, un loro segreto. Ma ciò che maggiormente incuriosisce e turba lo spettatore è lo strano, incredibile oggetto, simile ad un lungo osso di seppia, posto in basso di traverso fra i due personaggi. Qual’ è il significato di questa composizione e che cosa vogliono dirci i protagonisti attraverso il tempo e lo spazio?
Londra: aprile 1533, è l'anno dello strappo definitivo da Roma della Chiesa d'Inghilterra, a causa del divorzio del re Enrico VIII da Caterina d'Aragona, e del suo successivo matrimonio con Anna Bolena.
In città vi è l'ambasciatore francese Jean de Dinteville - il personaggio che appare a sinistra nel dipinto della National Gallery - con l'amico Georges de Selve, il personaggio a destra, che lo ha raggiunto per trascorrere insieme la festività pasquale. I due uomini sono entrambi molto giovani, ma hanno già alle spalle una lunga e fortunata carriera nella diplomazia, una disciplina nata in Italia agli inizi del '500 per dirimere i contrasti, e possibilmente evitare le guerre, tra i grandi Paesi europei, e fra questi e il mondo musulmano, per tessere invece fra loro alleanze politiche ed economiche. Jean de Dinteville è "balivo" di Polisy, cittadina francese presso Troyes, suo padre è tutore del Delfino di Francia, ed è per la seconda volta, delle cinque in cui lo sarà, ambasciatore presso la corte inglese dove è ben introdotto e apprezzato.
Georges de Selve, che dall'età di 18 anni era vescovo di Lavaur, era stato come ambasciatore a Roma, a Venezia e presso l'Imperatore. Quasi certamente committente del dipinto fu Jean de Dinteville che lo volle come ricordo dell'incontro a Londra con l'amico. Autore dell'opera fu il tedesco Hans Holbein il Giovane (1497 - 1543), che pochi anni dopo sarebbe diventato "pittore del re" d'Inghilterra.
Hans Holbein era nato in una famiglia di artisti nella ricca città imperiale di Augusta ma, col fratello Ambrosius, si era trasferito molto giovane a Basilea, da poco entrata a far parte della libera Confederazione Elvetica. Qui vi era un'università di recente fondazione e la città, culturalmente molto vivace, era luogo d'elezione di letterati, umanisti ed editori. Era anche luogo nel quale, come un po' in tutto il mondo tedesco, era forte il dibattito religioso fra protestanti e cattolici. A Basilea Hans Holbein, che si fece presto conoscere per le sue doti artistiche, incontrò Erasmo da Rotterdam che lo introdusse in un circuito di intellettuali di livello europeo. L'amicizia fra l' Holbein ed Erasmo, per il quale eseguì i disegni per la seconda edizione della "Laus Stultitiae", durò a lungo e fu grazie a lui che il pittore tedesco conobbe Tommaso Moro che lo accolse e lo protesse in Inghilterra, introducendolo negli ambienti aristocratici e di corte dove il sovrano, a dispetto della sua fama di "Barbablù", era un appassionato e vivace cultore delle scienze e delle arti.
Di Hans Holbein si è soliti parlare come di un buon esecutore, privo però di una vera cultura, ma la frequentazione di uomini quali Erasmo, Tommaso Moro e il matematico e astronomo Nikolaus Kratzer , fa ipotizzare in lui una grande ricchezza culturale ed artistica che si manifesta in effetti nelle sue opere, rappresentative del rinascimento d'Oltralpe. L'Holbein si era formato sulla pittura tedesca legata alla tradizione gotica ma anche rinnovata dai grandi pittori Dürer, Cranach ed altri, in più grazie ai viaggi attraverso l'Europa, in Francia, nelle Fiandre e nell'Italia del Nord, egli aveva affinato la sua arte subendo l'influsso dei grandi Maestri di questi Paesi, arrivando a risultati di eccellenza soprattutto nella ritrattistica. Egli fu infatti il ritrattista dei Tudor e degli umanisti e dei politici che ruotavano loro intorno, dopo essere stato anche il pittore della potente comunità tedesca di Londra. L'Holbein aveva scelto questa città poiché l'ambiente gli era sembrato desideroso di arte e aperto nei suoi confronti, dopo le delusioni e la paura provate a Basilea per le crociate iconoclastiche protestanti che in Svizzera avevano causato la distruzione di gran parte del patrimonio artistico religioso
Questo era dunque l'artista al quale si rivolse Jean de Dinteville che, tornando in patria, portò con sé il quadro che venne sistemato nella dimora di famiglia, il castello di Polisy dove, per poterne apprezzare a pieno il significato che vi era stato "nascosto", venne sistemato - come vedremo - in una posizione particolare. Quasi un secolo dopo, nel 1653, il dipinto che in quel momento era considerato "il più bello di Francia", venne portato a Parigi e nel 1787 venduto all'asta da un discendente del Dinteville. Acquistato da un mercante e critico d'arte francese, il quadro fu trasferito in Inghilterra, dove nel 1808 passò per acquisto al conte di Radnor. Un suo discendente, nel 1890, lo vendette allo Stato inglese che lo destinò alla National Gallery di Londra, dove venne sottoposto ad una necessaria opera di restauro che però, eseguito con i criteri e i mezzi del tempo, risultò più dannoso che utile.
Una lettura giusta del nostro quadro cominciò ad essere fatta solo dall'anno 1900 allorché la studiosa Mary S. Hervey, sulla base di un documento del '600, riuscì ad identificare Jean de Dinteville in uno dei due personaggi. Quasi uscendo dal dipinto i due autorevoli uomini si presentano al pubblico, il loro abbigliamento parla per loro, indicandone l'appartenenza ad un alto grado nella scala sociale. Jean de Dinteville indossa sulla calzamaglia un abito corto di velluto dal quale si intravede la ricca camicia di seta "alla francese", porta un giaccone bordato di preziosa pelliccia di lince dalle maniche corte ed ha sul capo un berretto, ornato da una spilla che, insieme alla grossa catena con medaglione dell'Ordine di San Michele, è uno dei pochi gioielli da lui esibiti. Dal fianco destro gli pende un'elaborata nappa simile ad una borsa intessuta alla quale è appeso lo spadino trattenuto dalla mano. Questo oggetto è dipinto con foglia e polvere d'oro, è quasi opera di cesello e sul fodero è indicata l'età dell'ambasciatore: 29 anni.
Georges de Selve, uomo di Chiesa, è avvolto in una lunga palandrana scura damascata con bordi di pelliccia di martora, ha in testa un berretto scuro, a corni, proprio del suo stato, con il braccio destro piegato si appoggia ad un libro sul cui taglio è scritta anche la sua età: 25 anni. Nella mano destra stringe i guanti, segno di autorevolezza. Entrambi gli Ambasciatori si appoggiano ad un mobile con due piani carichi di strumenti musicali e di misurazione del tempo.
Lo spazio nel quale gli Ambasciatori sono collocati è chiuso, una ricca tenda di seta alle loro spalle limita ed esclude ogni possibile prospettiva in profondità, i due sono in piedi e poggiano su un pavimento che ha, sorprendentemente, i disegni "cosmateschi" dell'abbazia di Wesminster.
Questo quadro è indubbiamente un'allegoria: gli strumenti di misurazione del tempo e dello spazio sidereo che si trovano nello scaffale superiore del mobile e quelli musicali nell'inferiore, secondo un' attenta lettura iconologica, ci dicono che la composizione è una grande "vanitas", un "memento mori", una delle prime "nature morte" dal forte contenuto moraleggiante. Tutti quegli strumenti descritti con meticolosità e amore per il dettaglio e posti, nel ripiano superiore, sopra uno dei famosi tappeti turchi, spesso presenti nella pittura occidentale con valore simbolico, vogliono ribadire che anche per i Grandi della Terra giunge il momento della morte: il Tempo che ci è stato assegnato è limitato, è scandito dagli strumenti di misurazione e ricordato da quelli musicali che creano la più effimera e inafferrabile delle arti: "Musica, sventurata, che muori mentre nasci", come aveva affermato Leonardo nel suo Paragone delle Arti.
Il richiamo alla morte è qui accentuato e sottolineato dal grande teschio in primo piano dipinto in "anamòrfosi", cioè con una deformazione che poteva essere annullata solo guardando la superficie del dipinto da una determinata angolazione. E questo avveniva nel castello di Polisy dove, posto in una sorta di ripiano delle scale, il quadro poteva essere ammirato passandogli davanti da sinistra a destra e dandogli un'ultima occhiata dopo averlo superato; si pensa che la cornice originale, perduta, avesse sul lato destro, ad altezza uomo, un forellino attraverso il quale si aveva la giusta visione, quello strano osso diventava un teschio. "Hohles Bein", cioè "Osso Cavo", la cui pronuncia simile a Holbein, poteva essere per alcuni la firma del pittore che invece è posta chiaramente, insieme alla data, presso i piedi di Jean de Dinteville. Da quel punto di vista si poteva anche vedere il Dinteville che pizzicava le corde del liuto. Il gioco dell"anamòrfosi" era frequente, insieme al linguaggio criptico e metaforico, nella cultura elitaria ed un po' iniziatica degli intellettuali del tempo e ci sono nella stessa National Gallery di Londra altri esempi di pittura del genere.
Questa spiegazione del dipinto non è però sembrata sufficiente ad alcuni storici e critici d'arte in particolare a John North, che è anche uno studioso di matematica e di astronomia; alcuni anni fa egli ha pubblicato un libro complesso sulla lettura da fare di questo quadro, svelando un ulteriore "enigma" dietro quello della "vanitas". Il suo studio è stato favorito da un restauro, effettuato in vista della mostra del 1998 a Londra, che gli ha permesso di "leggere" particolari che erano sfuggiti precedentemente ad altri studiosi. Le sue conclusioni sono che il pittore, sollecitato dal committente e con i consigli dei suoi dotti amici, primo fra tutti Nikolaus Kratzer, eminente matematico e astronomo tedesco presso la corte inglese, avesse espresso nel suo dipinto il principio dell'Armonia Universale e una dichiarazione di fede cristiana sulla grazia salvatrice di Dio, attraverso il sacrificio della Croce. Questo messaggio viene sottolineato dalla reiterazione criptata della data del Venerdì Santo che nel 1533, millecinquecentesimo anno dalla morte di Cristo, cadeva l'11 aprile.
Ma perché tanto mistero nell'enunciare una verità di fede nota in ambito cristiano?
La risposta può essere che in quei giorni, in cui si stava verificando il distacco definitivo della Chiesa inglese da Roma, il committente, aiutato dal pittore, aveva voluto fare una professione di fede "protetta" per ogni evenienza o situazione futura di pericolo.
Per seguire il ragionamento di North, che è piuttosto complesso e altamente specialistico, è necessario far ricorso, come ci insegna l'iconologia, ad un bagaglio enorme di conoscenze e nozioni; così almeno appare ai nostri occhi, non sarebbe però sembrato tanto arduo ad un uomo colto del '500 abituato ad un "codice" in uso. E allora cominciamo una disanima attenta di tutti gli oggetti che appaiono nel dipinto, prendendo in considerazione anche la composizione con le sue soluzioni spaziali. Tracciamo prima di tutto un reticolo con le linee che toccano gli oggetti al centro del dipinto, la più importante parte dall'angolo superiore sinistro (dove si intravede un Crocifisso), passa per l'occhio sinistro del Dinteville - l'occhio che vede la sofferenza secondo i mistici medioevali - tocca tutti gli oggetti sul piano superiore dello scaffale ed esce fuori del quadro a destra intersecando, su una linea immaginaria orizzontale che unisce gli oggetti dello scaffale inferiore, la retta che taglia a metà il teschio anamorfico. Queste due linee, incontrandosi, formano, sulla linea orizzontale, due angoli di 27°. Gli oggetti dello scaffale superiore risultano tutti iscrivibili in un cerchio che racchiude il doppio triangolo, l'esagramma, simbolo del sigillo di Salomone, ossia dell'Armonia Universale. Anche i disegni del pavimento, che riproducono quelli eseguiti nell'abbazia di Westminster nella seconda metà del '200 da marmorari romani, contengono questo simbolismo. Con il messaggio religioso entra nel dipinto anche la cultura cabalistica.
Sul piano superiore dello scaffale si trovano strumenti che riguardano il cielo, con dettagli che prima di North erano stati ignorati da una lettura frettolosa, volta solo alla comprensione della "vanitas". Il primo oggetto è un bellissimo globo celeste con dieci costellazioni associate a figure immaginarie ben visibili, la più importante delle quali appare essere quella del Cigno. Dalla posizione del Sole, delle stelle e delle costellazioni si può dedurre una data: l'anno, il giorno e l'ora che North indica come 1533, 11 aprile, ore 4 pomeridiane. Altri studiosi ne avevano tratto conclusioni diverse. È interessante notare che il re Enrico VIII, che era uno studioso di matematica e astronomia, cui l'aveva indirizzato Tommaso Moro, possedeva molti di questi globi.
Segue un orologio solare cilindrico in metallo, di facile costruzione, già noto nel medioevo. Ha uno gnomone orizzontale che veniva spostato secondo la stagione (e quindi secondo il segno zodiacale). Indica la data 11 aprile 1533. Questo cilindro, come altri strumenti dello scaffale, si ritrova nel ritratto che l'Holbein fece a Nikolaus Kratzer, ora al Museo del Louvre.
Il terzo è uno strumento solare in legno, composto, ma qui smontato. Si tratta di un orologio equinoziale, che dava cioè la posizione del Sole sull'equatore celeste. Unito al filo a piombo, misurava l'altezza del Sole come un sestante.
Vediamo poi un quadrante astronomico bianco, in legno rivestito di carta - ma poteva anche essere d'ottone - che indicava le ore con l'altezza del Sole. Complesso e ingegnoso, è ben documentato ed era d'uso comune. Con l'aiuto dell'orologio cilindrico qui indica un'ora: le 4 pomeridiane, con altezza del Sole di 27°.
In primo piano si evidenzia un bell'orologio solare poliedrico, che non si sa bene come venisse usato. Anche questo strumento allude ad un'inclinazione di 27°. L'orologio poliedrico era formato da una coppia di piramidi tronche unite alla base, era quindi un poliedro di dieci facce, ciascuna col proprio gnomone. Non era molto affidabile perché richiedeva grandi conoscenze di calcolo e di astronomia, oltre ad una grande esperienza. L'Holbein mostra di conoscerlo bene.
Ben in vista, più alto degli altri strumenti, il pittore pone il "torquetum", lo strumento che meglio testimonia il rapporto fra il pittore e l'astronomo, certamente il Kratzer. Il suo nome deriva da"torcere", deformare, e aveva un diametro di 40 cm circa. Poteva essere in ottone o legno ed era noto in Europa fino dal '200. Era uno strumento d'osservazione e calcolo del Sole, indicava la sede zodiacale che qui è fra Ariete e Toro esattamente dove il Sole si trovava il giorno 11 aprile 1533, Venerdì Santo. È indicato ancora un angolo di 27°. Legate al "torquetum" sono evidenti, da dettagli "colti", implicazioni esoteriche che si riferiscono a calcoli lunari, più esattamente dove fosse la Luna alle 4 pomeridiane dell'11 aprile 1533.
Tutti questi strumenti , dipinti dall'Holbein con una precisione e un amore di ascendenza fiamminga, sono posti sopra un morbido tappeto turco che, col suo forte simbolismo legato alla regalità e alla spiritualità, rientra nel grande progetto di messaggio religioso che il dipinto emana.
I tappeti erano presenti già nella pittura dei Primitivi fiamminghi e resteranno per secoli nelle "nature morte". Furono dipinti anche da alcuni pittori italiani ed avranno una denominazione specifica : tappeto Memling, tappeto Holbein, tappeto Lotto.
Nello scaffale inferiore sono posti gli strumenti che servivano per misurare la Terra e quelli musicali. Il primo è un magnifico globo terrestre sul quale sono ben disegnate Europa, Africa e le coste americane, come viste dall'alto, dal Polo Nord. Questo globo è certamente un debito verso l'astronomo e cartografo tedesco Johannes Schoener. Il vicino compasso a punte fisse è un'allusione all'Armonia del Creato, un omaggio al Creatore Architetto. È interessante notare le non poche tangenze concettuali e simboliche con la Massoneria, di là da venire.
Davanti al globo è appoggiato un manuale di aritmetica per uso commerciale, quello dell'Apianus del 1527, sulle cui pagine sono visibili operazioni di divisione e la parola tedesca "dividirt", chiara allusione alle divisioni che ormai stanno sconvolgendo la cristianità in quegli anni. La squadra che tiene aperte le pagine del manuale forma con queste un angolo di 27°.
Sullo scaffale inferiore dominano gli strumenti musicali in particolare un liuto a undici corde, una delle quali rotta, simbolo conosciuto di morte o discordia. Questo strumento è bellissimo, ed è testimonianza dell'amore per la musica presso la corte inglese dove lo stesso Enrico VIII si dilettava non solo a suonare, ma anche a comporre. Accanto al liuto quattro flauti fuoriescono dalla custodia fatta per cinque strumenti, ne manca uno. Forse la mancanza di un flauto corrisponde concettualmente alla corda rotta del liuto, dai due strumenti della gioia sembra partire il messaggio più inquietante.
L'analisi degli oggetti posti fra i due Ambasciatori termina con l'Innario Luterano del 1525, aperto alle pagine dove sono leggibili due inni composti da Lutero stesso. Sulla pagina di sinistra la traduzione tedesca del "Veni Sancte Spiritus" (cantato nel Venerdì Santo in tutto il mondo cristiano) col numero XIX, il numero della Pasqua, del ciclo di anni che concilia i ritmi del Sole e della Luna.
Sulla pagina di destra l'introduzione di Lutero ai Dieci Comandamenti. Questa presenza luterana nella rappresentazione di un contesto cattolico romano depone indubbiamente per una grande tolleranza da parte del committente. Di nuovo, l'angolo fra i bordi delle pagine tenute aperte dalla squadra è di 27°.
Il cranio deformato è anch'esso inclinato a 27° e oltre all'immediato significato di "memento mori" indica il Calvario, il Monte del Teschio.
Tutta la composizione si muove all'interno di linee che partono e arrivano al sacrificio della Croce. La data del Venerdì Santo è suggerita ripetutamente ed è indicato anche il luogo di questa privatissima liturgia: Londra. L'angolo di 27° è infatti l'inclinazione del Sole alle quattro del pomeriggio dell'11 aprile 1533 a questa latitudine. Perché sono indicate le quattro pomeridiane, invece delle tre? Forse il sacrificio sulla Croce lo si è voluto indicare quando "tutto era concluso".
Gli Ambasciatori avevano chiesto al colto pittore di testimoniare la loro fede cattolica romana che aveva il suo fondamento sul sacrificio della Croce, rinnovato col sacrificio eucaristico durante la Messa, nel momento e in un luogo dove questo principio stava per essere negato. È sorprendente che colui che realizzò questo complesso concetto teologico con un altrettanto complesso programma iconografico, legato alla Chiesa romana, fosse proprio un pittore di fede luterana, grande intellettuale e grande artista.