Anno 9 - N. 25/ 2010


Elemento di particolare interesse nella produzione di questo pittore è il tema iconografico “La Santa Parentela” o “Linea di Sant’Anna”, molto diffuso in ambito fiammingo

GANDOLFINO DA RORETO

Elegante protagonista del rinnovamento artistico piemontese, fra fiamminghismo e leonardismo.

di M. Giuseppina Malfatti Angelantoni



Santa Parentela (1501)

Torino, Galleria Sabauda (già in San Francesco ad Alba)


Nell’infuriare dell’incendio che, nella notte fra l’11 e il 12 aprile 1997, rischiò di distruggere la Sindone nella cattedrale di Torino, alcune opere d’arte, sia in chiesa che nell’annesso Palazzo Reale, subirono grossi danni. Fra queste una tavola del maestro piemontese Gandolfino da Roreto, nome poco noto ai più che però, anche grazie allo sfortunato evento e al restauro che ne seguì, divenne oggetto di doverosi studi più approfonditi che hanno portato a scoperte interessanti.
Questo pittore è sempre stato di difficile indagine per la mancanza di documentazione certa ed anche per il variare del suo stile legato, agli esordi, ai rigidi stilemi del tardo gotico internazionale per arrivare, nel breve volgere di tempo, ad esiti di rinnovamento e modernità a contatto con gli ambienti più avanzati della cultura pittorica contemporanea, soprattutto di quella lombarda. La bellezza e l’originalità delle sue opere gli procurarono grande fama al suo tempo ma, già nel ‘600, molti suoi dipinti erano andati dispersi e perduti, finiti anche anonimi in collezioni straniere, in particolare inglesi.
Spesso le sue opere erano state attribuite al contemporaneo e più noto Macrino d’Alba e, malgrado gli studi fatti su di lui nel ‘700 dal nobile albese Giovanni Vernazza, sarà solo a partire dalla fine dell’800, in seguito ad una scoperta durante il restauro di una sua pala d’altare nel duomo di Asti, che l’identità di Gandolfino comincerà a definirsi. L’opera fondamentale su di lui è costituita dalla pubblicazione di Giovanni Romano e collaboratori del 1998.
Di questo pittore non si conoscono neppure le date di nascita e di morte, ma si può ipotizzare, sulla base di qualche indicazione cronologica, che Gandolfino da Roreto fosse nato verso il 1470 ad Asti e non a Roreto - che è una piccola località vicina a Cherasco dalla quale poteva forse derivare il nome della sua famiglia – e che fosse morto nel terzo decennio del ‘500. Era figlio di un pittore, Giovanni, del quale non conosciamo alcuna opera, si può però presumere che doveva essere stato importante anche perché apparteneva alla ricca e nobile famiglia Pelletta.
Fra i pochi documenti che riguardano Gandolfino vi è lo scambio epistolare risalente al 1510 col fratello Placido, monaco nel monastero benedettino di San Pietro di Savigliano; da queste lettere, in italiano e in latino - segno di buona cultura da parte del pittore - si ha la testimonianza dei contatti stretti fra lui e le botteghe “legnarie” cremonesi dalle quali provenivano le straordinarie macchine lignee che incorniciavano i suoi grandi polittici.
Da un contratto del 1517 risulta che Gandolfino, con il figlio Cristoforo, partecipava come finanziatore ad imprese mercantili per la vendita di tessuti e questa esperienza può spiegare la bellezza e la straordinaria resa materica che troviamo nei suoi dipinti, alla maniera fiamminga.
La prima opera conosciuta di Gandolfino è “L’Assunzione della Vergine” alla Galleria Sabauda di Torino che mostra una forte dipendenza dalla pittura gotica ligure e provenzale, derivata forse da un apprendistato nella bottega del nizzardo Ludovico Brea. In questo grande polittico è rappresentata “L’Assunzione”, ma anche l’altro grande tema esaltato nella pittura del tempo, “L’Incoronazione della Vergine”, nella quale c’è il riflesso del famoso dipinto del francese Enguerrand Charonton (o Quarton) di analogo soggetto, realizzata per la Certosa di Villeneuve-lez-Avignon.
Della pittura ligure e francese questo dipinto di Gandolfino mantiene la luminosità mediterranea e l’aria “ponentina”, aggettivo che connotava la pittura proveniente dalla Spagna e dalla Francia, influenzata dall’arte fiamminga. La tavola, giunta alla Sabauda nel 1837, è datata e firmata, costituisce quindi il primo documento certo sulla produzione artistica di Gandolfino; era stata commissionata dalla famiglia Falletti di Alba per il loro altare nella chiesa cittadina di San Francesco.
Databile al 1496 - 1498 è la grande pala d’altare della “Madonna in trono con Santi” nella chiesa di Santa Maria Nuova ad Asti. In questa enorme tela si avverte un aggiornamento sulla contemporanea pittura veneta di cui cita tutta la poesia, soprattutto nella dolcezza dei volti, nella presenza di angeli cantori sugli scalini del trono della Vergine e nello sfondo paesaggistico.
I successivi dipinti di Gandolfino, anche a poca distanza di tempo da queste prime opere, appaiono molto diversi, “moderni”, aggiornati sulla nuova pittura lombarda con la quale era entrato in contatto per viaggi e soggiorni che egli certamente compì a Pavia, a Milano e a Cremona. Questi viaggi possono essere situati alla metà degli anni ’90 del Quattrocento quando a Pavia c’era il massimo fervore artistico nel grande cantiere della Certosa dove, grazie alla presenza dei lombardi Bernardino Zenale e Bergognone, e dei dipinti che arrivavano, per volontà di Ludovico il Moro, dall’Italia Centrale, stava prendendo vita il rinascimento lombardo in pittura preparato dall’arte e dalla scienza del Bramante e di Leonardo, attivi a Milano da qualche anno presso la corte sforzesca.
La presenza di Gandolfino da Roreto alla Certosa di Pavia poteva essere dipesa da una chiamata, o da una presentazione, di Ugo Cacherano di Asti che, tra il 1481 e il 1490, aveva rivestito nell’importante cenobio pavese il ruolo prestigioso di procuratore e priore. Nel periodo trascorso in Lombardia, Gandolfino probabilmente vide e apprezzò il nuovo stile influenzato dall’arte fiamminga e dalle profonde ricerche di Leonardo, ne sono testimonianza alcuni dipinti, fra i quali l’enigmatica “Pala Sforzesca” di Brera, tavola dall’attribuzione ancora problematica che, a parere di chi scrive, sulla base del raffronto puntuale con il “Polittico Pelletta” di Gandolfino nel Duomo di Asti, potrebbe essere ragionevolmente attribuita a lui e ad un pittore leonardesco. Questa pala d’altare era stata commissionata nel 1494 da Ludovico il Moro per la piccola chiesa dell’antichissimo monastero di Sant’Ambrogio ad Nemus, al tempo fuori delle mura cittadine. Vi è rappresentata la famiglia di Ludovico Maria Sforza: lui, la moglie Beatrice d’Este e due bambini, tutti inginocchiati, rigorosamente di profilo, davanti al trono della Vergine con il Bambino, attorniata dai quattro Dottori della Chiesa e protetta da Angeli che reggono una corona, quella ducale, appena conferita al Moro da parte dell’imperatore Massimiliano I. Un ritratto ufficiale, aulico, nel quale però non viene meno un senso di affettuoso intimismo. La Vergine col Bambino e il bambino inginocchiato alla destra di Ludovico il Moro potrebbero essere opera di Giovanni Antonio Boltraffio, mentre le quattro grandi figure dei Dottori, gli Angeli e la definizione spaziale, scenografica e prospettica dello sfondo, in verità un po’ claustrofobica, potrebbero essere attribuiti al pittore piemontese. I dettagli dell’abbigliamento, dalle vesti colorate e con nastri, alle acconciature - il lungo “coazzone” di Beatrice - ai gioielli, alla descrizione minuziosa delle parti decorative e le peculiarità materiche, testimoniano la forza della lezione fiamminga che poteva essere giunta a Gandolfino anche dai pittori francesi e spagnoli allora presenti in Piemonte e presso i Savoia: Antoine de Lohny, Hans Clemer, Josse Lieferinxe, e da un dipinto del catalano Bartolomè Bermejo nel duomo di Acqui.
Sempre legata all’ambito milanese deve essere considerata la “Madonna col Bambino”, del convento della Visitazione a Milano, datata 1500, dalla composizione strutturata e dalla grazia leonardesche. Questa tavola giunse nel convento solo nel 1841 quale dono della madre di una novizia, non se ne conoscono perciò né la committenza, né la prima destinazione.
A partire dai primi anni del ‘500, si accentua in Gandolfino l’influenza della pittura fiamminga, non più mediata dai modelli liguri o lombardi contemporanei, ma diretta, quella dei Primitivi fiamminghi che avevano lavorato nella prima metà del ‘400, quindi una pittura “antica”, dalla quale Gandolfino prende elementi essenziali quali l’iconografia, la composizione e gli stessi dati fisionomici. La forte somiglianza di alcuni suoi personaggi con personaggi di opere fiamminghe - soprattutto del Maestro di Flémalle e di Rogier van der Weyden - suffraga l’ipotesi di un viaggio del pittore astigiano nelle Fiandre, dove avrebbe potuto prendere visione diretta delle tavole fiamminghe; non sarebbero stati sufficienti infatti riproduzioni o qualche dipinto portato ad Asti a fargli dipingere i molti dettagli tanto simili. La possibilità di un suo viaggio nel Nord è concreta tenendo presenti i rapporti e gli scambi vivaci in campo mercantile e finanziario fra la città di Asti e i Paesi Bassi Meridionali dove, a Bruges e a Lovanio, c’erano i “banchi” dei mercanti-banchieri astigiani (che nel medioevo erano chiamati “lombardi”): i Solaro, gli Alfieri e i Pelletta. Potrebbe però diventare superflua l’ipotesi di un viaggio di Gandolfino nelle Fiandre se una ricerca approfondita sull’esistenza in Asti di opere portate dal Nord avesse come risultato la conferma di un ricco patrimonio pittorico in città. E questa è in verità una via che sarebbe affascinante percorrere.
Asti manteneva, al tempo di Gandolfino, una posizione di prestigio e una ricchezza che le derivavano dall’essere “città francese”, legata strettamente alla Corona. Dopo essere stata nel corso del ‘300 sotto la signoria dei Savoia e libero Comune, alla fine del secolo la città si era “data” a Gian Galeazzo Visconti che nel 1387 l’aveva assegnata in dote alla figlia Valentina, al momento delle sue nozze con Luigi d’Orléans, della famiglia reale di Francia. Asti divenne città “francese” per cultura e costume, una città dai ricchi commerci con la Francia meridionale, in particolare con Nizza, e con i Paesi Bassi. Asti rivestì, inoltre dal punto di vista politico, un ruolo determinante nella storia della Lombardia e d’Italia poiché fu a causa della presenza degli Orléans, che ne avevano fatto un presidio francese, che qui fu fatta la base per le calate dei sovrani francesi in terra italiana. Vi era inoltre una lontana causa legale che mosse i Valois e gli Orléans ad armarsi contro il Ducato di Milano: nel suo testamento Gian Galeazzo Visconti, primo duca, aveva nominato eredi i suoi discendenti maschi, in mancanza di questi, il Ducato sarebbe dovuto andare ai discendenti maschi della figlia Valentina, sposa sfortunata di un Orléans. Questo momento venne allorché alla morte del duca Filippo Maria Visconti senza eredi maschi, Milano e la Lombardia sarebbero dovuti andare al discendente Orléans. La forza e l’abilità politica del condottiero Francesco Sforza, sposo di Bianca Maria Visconti, allontanarono questo pericolo che si ripresentò però quando alla guida del Ducato si trovava Ludovico il Moro e sul trono di Francia sedeva un Orléans, il re Luigi XII, nipote di Valentina e duca di Asti. Egli nell’anno 1500 scese in Italia a reclamare il suo diritto alla successione del Ducato visconteo e, aiutato anche dagli stessi milanesi, sconfisse lo Sforza.
Luigi XII portò a Milano una mentalità neo-guelfa e una cultura aulica, cavalleresca, ispirata al clima delle Chansons des Gestes, ricca di fermenti riformatori anche in campo spirituale e religioso. Purtroppo di questi primi venti anni del ‘500 si ricordano solo le violenze delle soldatesche e la pesante tassazione alla popolazione, dimenticando che si stava invece avviando un movimento di riforma cattolica che ebbe ripercussioni anche in campo artistico, come si vede nelle opere inquietanti ed enigmatiche, cariche di messaggi allusivi al rinnovamento, del Bramantino e di Marco d’Oggiono. In questa Milano, guidata dagli illuminati Giorgio e Carlo d’Amboise - quest’ultimo grande estimatore e protettore di Leonardo - erano presenti, con la dignità di funzionari reali, anche nobili astigiani e Asti condivise con Milano questa nuova temperie culturale e spirituale.
Su questo sfondo storico, così ricco sotto ogni punto di vista, possono essere meglio indagati la personalità e l’identità artistica di Gandolfino e le scelte e il gusto della sua ricca committenza.
Elemento di particolare interesse nella produzione di questo pittore - di cui conosciamo una sessantina di opere - è il tema ripetuto nelle grandi pale d’altare della maturità: “La Santa Parentela ” o “Linea di Sant’Anna”, iconografia da noi rara, ma frequente nella pittura fiamminga. È la rappresentazione della famiglia di Maria secondo i Vangeli Apocrifi e la Legenda Aurea in cui si narra che Anna, madre della Vergine, si sposò tre volte, con Gioachino, con Cleofa e con Salomé ed ebbe una figlia con ogni marito di nome Maria; le tre Marie si sposarono e ciascuna ebbe figli, con ciò si voleva dare una spiegazione conveniente all’affermazione evangelica spesso tendenziosa che nominava la famiglia di Gesù. I figli di Maria di Cleofa furono Giacomo Minore, Giacomo il Giusto e Simone, quelli di Maria di Salomè Giuda, Giacomo Maggiore e Giovanni Evangelista. Nei dipinti questo soggetto permetteva di rappresentare il vivace gruppo di bambini con le loro mamme, disposti come in una scala ideale intorno a Sant’Anna, protettrice della maternità e simbolo femminile molto complesso. Questa iconografia dopo il Concilio di Trento non venne più riproposta.
Le tavole di Gandolfino con l’iconografia della “Santa Parentela ” a tutt’oggi conosciute sono cinque e la più nota è la cosiddetta “Pala Pelletta” del Duomo di Asti, dove si trova sull’altare di San Filippo Neri nel transetto destro, smembrata e ricomposta in un’incongruente ricca cornice in stile barocco. Questa pala è molto importante per la cronologia delle opere di Gandolfino infatti, al momento del restauro nel 1870, qui fu trovata la firma e la data - 1501 - che divennero un riferimento per attribuzioni e datazioni di altri dipinti di Gandolfino. Nella tavola centrale, sistemata in uno spazio architettonico bramantesco, un’esuberante “famiglia”di bambini e di adulti ruota festosa intorno alla possente figura di Sant’Anna, dal manto rosso; alla base della scena, su un grande cartiglio, è trascritto il testo apocrifo sulla “ parentela” della Vergine. Nei pannelli laterali, che facevano parte del polittico prima della sua scomposizione, e ora sono lontani dalla tavola centrale, vi sono i Santi protettori della città: Biagio, Gerolamo, Dalmazzo e Secondo, disposti secondo uno schema consolidato in Lombardia in spazi fortemente “scorciati” e sproporzionati. Queste figure di Santi hanno grande affinità stilistica con i Dottori della Pala Sforzesca di Brera, come sopra indicato, sia per le caratteristiche somatiche e fisionomiche, sia per la plasticità dei volti sui quali lo sfumato e il contrasto luce/ombra dei dipinti di Leonardo appaiono accentuati da una tendenza espressionistica.
Dello stesso soggetto della “Santa Parentela ” sono la tavola della Cattedrale di San Giovanni di Torino, che fu danneggiata nell’incendio della Cappella della Sindone - era probabilmente uno sportello poiché sul retro ci sono ancora serratura e cardini - e quella del Museo Civico d’Arte Antica di Torino, di alta qualità. In questo dipinto le affinità con la pittura dei grandi Primitivi fiamminghi sono sorprendenti.
Altra bellissima opera di Gandolfino è “Lo Sposalizio della Vergine” sull’altare maggiore del duomo di Asti, databile al 1516. Anche in questa tavola la struttura si regge sul gruppo centrale di Giuseppe, Maria e i vecchi genitori, un soggetto inusitato, una dimostrazione d’attenzione alla famiglia, un insieme ben armonizzato per colori e disposizione, in uno spazio bramantesco, con evidenti caratteri fiamminghi che sembrano intenzionalmente sottolineati dall’incombente lampadario nordico. Un particolare che spesso si ripete in Gandolfino, anche qui i capitelli delle colonne dello spazio dipinto sono simili a quelli dei palazzi astigiani.
Queste pale andarono ad abbellire le chiese di Asti e di altre città vicine, proponendo la novità di composizioni articolate e più libere, improntate al naturalismo leonardesco e alle definizioni spaziali ed architettoniche bramantesche, una sintesi elaborata di arte lombarda, fiamminga e centro italica, che dette avvio al rinnovamento della pittura in Piemonte. Dopo Gandolfino, che aveva lavorato nella sua città anche come frescante - abbiamo però purtroppo solo alcuni lacerti di affreschi suoi - non ci fu in Asti continuità della sua bottega e di suoi successori con l’eccezione di Pietro Grammorseo, pittore vallone, e di Oddone Pascale, dei quali però si hanno pochissimi dati certi. Uno studio su di loro presenterebbe al momento grandi difficoltà.
Gandolfino guarda molto alla pittura fiamminga, ma non ne conosce la tecnica, egli continua a dipingere a tempera e a tempera mista, quando i pittori italiani influenzati dall’arte fiamminga, quali Antonello da Messina e Giovanni Bellini, già facevano uso dell’olio come “medium” dei pigmenti. La tecnica a tempera toglie un po’ di luminosità agli strati pittorici, ma non toglie bellezza e incanto alle composizioni originali e armoniose del pittore di Asti. Egli infatti sa usare con maestria colori complementari per i suoi personaggi dai volti dolci o intensi, ammantati di tessuti preziosi e ornati di gioielli, dalla resa materica straordinaria, alla fiamminga, e sa illuminare di inazzurramenti delicati, alla Leonardo, i suoi sfondi paesaggistici infiniti.

Il presente lavoro fu esposto dall’Autrice nel corso di una serata organizzata dal Club Inner Wheel Asti, presso il Seminario Vescovile della città, nel febbraio 2009.