Anno 9 - N. 27/ 2010


ILLUMINISTI ALL’OPERA Pietro Verri e gli spettacoli nel Settecento milanese

“Il teatro buono o cattivo è una necessità”

Intorno alla metà del secolo, la vita musicale milanese ruotava soprattutto intorno al Regio Ducal Teatro, costruito nel 1717 in luogo del preesistente Salone Margherita, che era andato distrutto in un incendio nel 1708.

di  Alessandro Peroni



L'Accademia dei pugni (Collezione Sormani Andreani)


Il secolo in cui Pietro Verri visse, e in particolare il periodo noto come “età teresiana”, rappresentò per Milano e la Lombardia austriaca un periodo di riforme amministrative, di rivolgimenti sociali e culturali dei quali Verri stesso è da annoverare tra i promotori. Questo rinnovamento coinvolse anche l’ambiente teatrale e musicale della città: nonostante una secolare e consolidata tradizione locale, che si può far risalire all’età sforzesca, fu proprio durante il secolo XVIII che Milano uscì dalla propria condizione provinciale e si avviò a diventare una delle capitali europee della musica, grazie soprattutto ad una serie di iniziative artistiche ed imprenditoriali aperte non solo alla produzione musicale della penisola, ma anche alle novità provenienti dal resto del continente.
Intorno alla metà del secolo, la vita musicale milanese ruotava soprattutto intorno al Regio Ducal Teatro, costruito nel 1717 in luogo del preesistente Salone Margherita, che era andato distrutto in un incendio nel 1708. Il teatro sorgeva a lato del Palazzo Ducale, di cui costituiva architettonicamente una parte integrante. Aveva una platea e cinque ordini di palchi, e metteva in scena soprattutto opere di compositori italiani, per lo più di scuola veneziana e napoletana. L’opera seria era in programma durante la stagione di carnevale, mentre d’estate si rappresentavano soprattutto la commedia e l’opera buffa. Nonostante la predominanza di spettacoli di gusto tipicamente italiano, a Milano si faceva però sentire l’influenza della dominazione austriaca: nei cartelloni troviamo infatti anche nomi di compositori provenienti dall’area tedesca, che giungevano in Lombardia per iniziativa di qualche membro delle corti viennese o milanese. Fra questi ricordiamo Johann Christian Bach, Gassmann, Gluck, Hasse, Myslivecek. Anche Mozart fu per un certo periodo tra i protagonisti della vita musicale di Milano: egli si recò per ben tre volte nella città lombarda, all’inizio degli anni ’70, dietro invito personale del plenipotenziario Carlo Firmian, che ne fece una stella del suo salotto. Per Milano, Mozart compose, oltre a varie opere minori sacre e profane, due melodrammi, Mitridate, re di Ponto (1770) e Lucio Silla (1772). In occasione delle nozze dell’arciduca Ferdinando d’Austria con Maria Beatrice d’Este, scrisse la cantata celebrativa Ascanio in Alba (1771) su testo del Parini. L’abate milanese narrava così (citando se stesso in terza persona) la grande serata: “Giunta la notte, e intervenute le LL.AA.RR. al teatro, che fu sempremai affollatissimo di popolo, diedesi principio alla rappresentazione della serenata, intitolata Ascanio in Alba. Questo drammatico componimento, autore del quale è l’abate Parini, conteneva una perpetua allegoria relativa alle nozze delle LL.AA.RR. ed alle insigni beneficenze compartite da S.M. la imperadrice regina massimamente a’ suoi sudditi dello Stato di Milano. La musica del detto dramma fu composta dal signor Amadeo Wolfango Mozart, giovinetto già conosciuto per la sua abilità in varie parti dell’Europa”.

“Il teatro buono o cattivo è una necessità”

Pietro Verri fu un assiduo frequentatore dei teatri milanesi, sebbene frequentemente esprimesse la propria insoddisfazione per gli spettacoli a cui assisteva. Egli si astenne dall’intervenire alle rappresentazioni solo in particolari periodi della sua vita, ad esempio quando il lavoro che comportavano le cariche pubbliche da lui ricoperte si faceva, spesso per sua stessa scelta, oltremodo gravoso. Scriveva nel 1766 al fratello Alessandro e a Cesare Beccaria, da pochi giorni partiti per Parigi: “Questa lettera ve la scrivo dalla dottissima sedia del supremo Consiglio perché oggi è il solo tempo, che avrò per scrivervi. […] Non sono stato al teatro dopo la vostra partenza, la sera me ne sto nella mia solitudine” (11 ottobre 1766). Forse un eccesso di lavoro, ma soprattutto la nostalgia per l’amatissimo fratello assente, nostalgia che l’accompagnerà anche nei decenni a venire, poiché Alessandro non sarebbe tornato dal suo tour europeo, preferendo stabilirsi a Roma. L’ultima sera che Pietro lo vide prima della loro lunghissima separazione fu proprio a teatro. La ricordava ancora anni dopo, quando nel febbraio del 1776, un incendio distrusse il Regio Ducal Teatro, luogo dove i fratelli Verri e Cesare Beccaria avevano trascorso molte notti insieme ai tempi eroici del “Caffè”: “La sera del primo ottobre 1766, è stata l’ultima in cui tu hai veduto il Teatro di Milano; non me ne ricordo mai senza tenerezza di quel momento in cui ci sfuggivamo per non darci il congedo, e ci fingevamo duri e insensibili per non affliggerci. […] Questo sfogo conviene reprimerlo, perché io ho cominciato la mia lettera per annunziarti che non vedrai più il Teatro di Milano che è bruciato interamente la mattina del 25, cioè il primo giorno della nostra quaresima” (28 febbraio 1776).
Il teatro fu anche il luogo dove la rottura fra Pietro Verri e Cesare Beccaria divenne, nel 1767, di pubblico dominio, come Pietro ancora narrava al fratello: “Con Beccaria, te lo ripeto, è rotta per sempre. Non solamente non vi può più essere amicizia, ma nemmeno posso soffrire di passare il mio tempo con lui […]. Questo verrà all’occhio la primavera, quando non saremo più assieme al teatro, ma qualunque sia il genere dei discorsi da nascere […] non me ne importa un fico” (8 febbraio 1767). Sempre a teatro avvenne la conciliazione fra i due, dopo anni di conflitto inespresso, allorché il prezzo elevato dei palchi al nuovo Teatro alla Scala convinse le mogli dei due ex amici a prendere in affitto un palco insieme: “I palchi al nuovo teatro sono tanto cari che, sebbene dopo il mio matrimonio ne abbia avuto uno in affitto, ora per un anno l’ho a metà, e siccome la Maria [Castiglioni, prima moglie di Verri] è amica sino da figlia della [seconda] moglie di Beccaria [Anna dei Conti Barnaba Barabò], che è, come sai, nostra cugina e buonissima giovine, così la società è con essa. […] Questa società è cagione ch’io veda per due ore almeno ogni sera l’autore dei Delitti e delle pene; in verità che lo vedo ben diverso da quello che mi compariva quattordici anni fa. Noi siamo con un tono d’amicizia” (6 marzo 1776). E poi, non senza perfidia: “Egli è ingrassato a dismisura e parmi che l’anima s’addormenti e lentamente si svolga sotto di quell’ammasso. […] La base delle sue sensazioni è un timore che passa l’immaginazione, e forse ne sono un contrassegno anche alcuni effluvi che fa respirare a suoi amici nella loggia” (17 maggio 1780). La ricostituzione del sodalizio con il vecchio compagno di studi e di lotte intellettuali costituì un’occasione per riflettere su quanto fosse importante per lui il teatro: “Tante sono le passioni, i pregiudizi e la imbecillità che non sappiamo né stare soli, né vivere in compagnia, e il teatro buono o cattivo è una necessità per avere il modo di passare le ore della sera” (30 settembre 1778).
Una “necessità”, dunque, un rifugio dalle proprie angosce, un luogo, si direbbe, che proteggeva tanto dalla solitudine quanto dalla “compagnia”, poiché in esso le relazioni personali, i rapporti sociali erano regolati da una rigida codificazione. Al di là di queste sottili motivazioni di carattere psicologico, la passione per il teatro di Verri era sicuramente autentica ed includeva anche il teatro come spazio fisico e architettonico, giacché il nostro non mancò di andare a visitare tutti i nuovi teatri che venivano, in quegli anni, inaugurati nei dintorni di Milano, come quello della villa di Monza o quello “de’ Quattro Cavalieri” di Pavia. In particolare, lo colpì la modernissima architettura del Bibiena del teatro pavese, tutta in muratura e a ferro di cavallo (la stessa che sarà poi scelta per la Scala), che gli diede la singolare sensazione di trovarsi un’arena romana rovesciata: “L’altro ieri si è fatto l’aprimento d’un magnifico teatro in Pavia, teatro tutto di vivo” (26 maggio 1773). “Il teatro è bellissimo; sono cinque ordini di architettura i palchi e mi pare il Colosseo rovesciato, perché è nell’interno quello che esteriormente [è] il Colosseo” (7 luglio 1773).


“L’abbruciamento del Teatro”

Uno degli eventi che maggiormente turbò Pietro Verri fu l’incendio del Regio Ducal Teatro, che bruciò la mattina di domenica 25 febbraio 1776, primo giorno di quaresima del calendario ambrosiano, subito dopo l’ultima serata di balli carnevaleschi. Dalla data dell’incendio, quasi ogni lettera spedita al fratello contiene un riferimento alle vicende politiche, alle voci, alle chiacchiere che si riferivano al disastro ed alla conseguente decisione di costruire a Milano due nuovi Teatri, quello alla Scala e quello alla Cannobiana, mentre per due anni (1776-78) restò aperto il Teatro Interinale.
Pietro Verri fu tra coloro che accorsero sul luogo dell’incendio e dalle terrazze del Duomo fu spettatore, con occhi curiosi e commossi, della fine di un luogo al quale lo legavano molti ricordi: “Appena da due ore erano partiti i molti che vi avevano ballato la notte e la mattina sino alle tredici, che si vide in un momento offuscata l’aria da una densissima nube di fumo e poi scoppiarono altissime fiamme […]. Mi alzai; mi portai in Corte, dove S.A.R. dava gli ordini con mirabile presenza di spirito, poi m’arrampicai sul Duomo e dominai comodamente il tutto. […] La folla delle persone che si adoperavano, era immensa [...]. Comunemente si crede artificioso questo incendio [...]. Pare che il Teatro non si farà più né di legno, né dov’era; è già il secondo che si incendia in questo secolo appena giunto a 60 anni” (28 febbraio 1776).
Il rogo di un teatro rappresenta sempre un violento trauma emotivo che lacera il tessuto collettivo di una città: così accadde a Milano con l’incendio del Ducale, cui fece seguito l’abituale ridda di supposizioni e di accuse. Nonostante i forti sospetti di dolo, l’inchiesta non identificò alcun colpevole. Poiché una città non può vivere senza teatro, Milano reagì immediatamente, grazie soprattutto all’impegno degli appaltatori e all’interesse dell’Arciduca Ferdinando, e subito venne approntato un teatro provvisorio al Collegio de’ Nobili. Nacquero quindi lunghe discussioni su dove costruire il nuovo teatro e come ottenere i fondi necessari. A giugno si decise la costruzione, nel giardino della casa appartenuta a Barnabò Visconti, del Teatro Interinale, fabbricato in legno ed eretto in brevissimo tempo.
Milano era così riuscita a superare questa difficoltà e a luglio Pietro Verri poteva comunicare al fratello una sorta di primo bilancio: “Dal male nasce il bene, questo è il mio sovrano aforisma; ho preveduto che l’abbruciamento del Teatro doveva produrci migliori divertimenti e siamo vicini a provarlo. Nel Teatro posticcio del Collegio de’ Nobili alla metà del presente verrà una compagnia francese, che ha rappresentato a Torino. Va a volo la fabbrica del Teatro di legno interinale nel giardino della defunta marchesa Bianca Visconti [...]. Alla fine di agosto l’opera sarà terminata. [...] Per un anno almeno, cioè sino all’autunno 1777, questo dovrà servire perché non è ancora noto dove siasi per fabbricare il nuovo Teatro di vivo” (6 luglio 1776).
L’enigma che teneva in ansia i milanesi fu svelato alla fine dello stesso mese. Milano avrebbe presto avuto ben due nuovi teatri, uno grande e uno piccolo: “Finalmente è venuta la decisione sul Teatro. Alla Scala [al posto della chiesa] si farà il Teatro grande e il piccolo si farà dove eranvi le Scuole Cannobiane. Presto si darà mano alla fabbrica tutta di vivo e a spese de’ proprietari de’ palchi” (27 luglio 1776). Pietro Verri, intanto, prese in affitto un palco per sé e per la moglie al nuovo Teatro Interinale, che finalmente fu inaugurato il 14 settembre 1776. Colpisce l’attenzione quasi maniacale, che doveva comunque essere comune a molti suoi concittadini, con la quale Pietro Verri seguì le vicende che riguardavano la nascita del Teatro alla Scala. Nel carteggio col fratello, egli commentava i disegni di Giuseppe Piermarini, che era stato nominato nel 1770 architetto arciducale e camerale e che fu il principale artefice del rinnovo edilizio nella Lombardia austriaca: “Ho veduto il disegno del teatro grande; la facciata sarà una bella cosa e di ornamento alla città. Ella caderà sul fianco della Chiesa della Scala che è quasi demolita. Internamente non so l’effetto che cagionerà il teatro. [...] Temo che farà raccapriccio e che le voci non reggano in questo mare. […] Ma, ripeto, la facciata è assolutamente bella; il tutto è dell’architetto Pier Marini” (12 ottobre 1776).


“Il Teatro alla Scala è magnifico”

Le perplessità svanirono nei mesi precedenti l’inaugurazione, un evento che la città attendeva con autentica trepidazione, come testimoniano le lettere scritte tra la primavera e l’estate del 1778: “Il Teatro alla Scala è magnifico e si è provato che riesce bene per le voci. [...] Il giorno 3 del venturo [agosto 1778] si aprirà il gran Teatro alla Scala. La sala è magnifica a sei ordini di palchi. Sarà forse il più gran teatro d’Italia e del mondo”. La descrizione del teatro e la cronaca dell’inaugurazione della Scala fornite dal Verri costituiscono la testimonianza storica più importante dell’evento. Significative le riserve espresse nei confronti della facciata, dovute, come pure Verri comprendeva, all’angustia della via prospiciente al teatro (la piazza attuale non esisteva), dalla quale non era possibile apprezzare il disegno complessivo della facciata del Piermarini: “La facciata del nuovo teatro è bellissima in carta, e mi ha pure sorpreso quando la vidi prima che si mettesse mano alla fabbrica; ma ora quasi mi dispiace. Nel disegno tu vedi la facciata come una sola superficie, nella esecuzione sono tre pezzi. Il portico di bugne si avanza molto, e servendo al passaggio delle carrozze che vanno al teatro ti copre e offusca parte dell’edificio. Se ti scosti poi per vedere scemata la deformità, ti spunta un casotto in cima della facciata che è il tetto assai alto. Questa facciata poi è piantata dove era il fianco della chiesa alla Scala, e così vedi non ha piazza avanti di sé”. Al contrario, l’interno a ferro di cavallo lo colpì positivamente: “Se ti ho fatto le note critiche sulla facciata che di rilievo ha grandi imperfezioni, io ti farò l’elogio dell’interno di questa magnifica fabbrica. Spira dappertutto grandezza di eleganza, la curva è riuscita così bene che in ogni parte che ti affacci ti sembra d’essere come al centro per rimirare il tutto insieme. Appoggiando le spalle all’orchestra, mi pare di essere in una rotonda per l’illusione che mi fa comparire le logge non sovraimposte perpendicolarmente. Il ridotto è un appartamento reale, grandi sale a volta a trumeau ben mobiliate, bene illuminate. La gran sala del ridotto è il corpo di mezzo della facciata, ne ha due laterali, e una parallela più interna; ha l’uso della terrazza sul portico, e non si può fare un ridotto più maestoso e comodo. Sono sei ordini di palchi di 36 palchi ciascuno, siccome lo era il vecchio teatro. […] La musica e le voci risuonan bene, la platea è a volta, i palchi e le loro divisioni sono di legno, tutto il restante è l’opera de’ muratori” (Milano, 5 agosto 1778).
Un anno dopo, pochi giorni prima dell’apertura del Teatro alla Cannobiana, anch’esso progettato del Piermarini, Pietro esponeva al fratello un bilancio critico sull’operato dell’architetto arciducale a Milano. Se qualche tempo prima Verri aveva auspicato un radicale rinnovamento urbanistico della città (“Milano avrebbe bisogno d’un terremoto”), ora che questo era in atto ne poteva valutare innanzitutto l’impatto intellettuale sui milanesi: “Mi pare che le belle arti veramente da noi fossero all’ultima depressione; la facciata di Casa Litta, la Chiesa di S. Francesco di Paola ecc. ne sono un buon testimonio; Piermarini è venuto e ha fatto uso della linea retta e della circolare, ha mostrato l’architettura; tutti i nostri si sono sdegnati, e non vi è diceria che non si sia sparsa: ma il Reale Arciduca lo ha sostenuto; oltre due teatri, e il Palazzo Ducale, egli ha fatto varie facciate che hanno del merito” (Milano, 31 luglio 1779).
Certo, non si trattava di un’entusiastica conversione all’estetica del Piermarini, ma piuttosto di un’accettazione razionale dei principi architettonici del neoclassicismo, quelle linee “retta” e “circolare” che si contrapponevano all’ancora sopravvivente gusto del barocchetto lombardo. Ma ciò di cui Pietro era soprattutto consapevole era l’ineluttabilità delle scelte che provenivano dall’alto: le resistenze dei milanesi dovevano arrendersi di fronte all’autorità del governo austriaco che, incarnato nella persona dell’Arciduca Ferdinando, esercitava un potere sempre più assoluto sulla città, anche per quanto riguardava le scelte architettoniche. Alla vigilia dell’apertura del Teatro alla Cannobiana fortemente voluto dall’Arciduca, Pietro non poteva fare a meno di collegare il lavoro del Piermarini alle trasformazioni in atto a Milano, che venivano, talora, a cancellare le gloriose vestigia del passato cittadino: “Fra pochi giorni si apre il nuovo teatro nella strada Larga; la fabbrica è bella, e solamente mi spiace che si voglia atterrare quel nobile obelisco sostenuto da quattro sfere di bronzo che è un bel lavoro. Dacché tu sei partito molte cose belle si sono fatte per ornato della città; la Corte Ducale, la facciata Belgioioso, quella del Teatro ecc.; ma ancora si sono distrutte delle memorie pregevoli, cioè la sala del Parlamento della Repubblica al Pretorio, la [chiesa della] Scala, la Torre dell’Imperatore, e il cielo ci lasci ancora in piedi le colonne di S. Lorenzo che si va discorrendo che imbarazzano il corso. È una epoca quella nella quale viviamo, che per un amatore delle antichità patrie è dolorosa” (Milano, 11 agosto 1779).
Tuttavia, il progresso imposto dall’autorità imperiale era inarrestabile e l’apertura del nuovo teatro fu un successo: in primo luogo, un successo personale dell’Arciduca, il quale nutriva una grande passione per gli spettacoli, tanto da volersi associare all’impresario Carpani nella gestione dei teatri di Monza e della Cannobiana.
Quest’ultimo fu inaugurato il 21 agosto 1779. “L’esperimento del nuovo teatro è riuscito felicemente”, annunciava Pietro al fratello il 25 agosto. Ora Milano aveva due teatri pubblici, uno dei quali sotto il controllo diretto della corona. Il significato politico di questo fatto apparve evidente nemmeno due mesi dopo, con una scenografica serata di gala per l’onomastico dell’imperatrice, nella quale, contro la tradizione milanese, si ballò anche fuori dal carnevale: “Ieri sera, giorno di S. Teresa, si è illuminata magnificamente la facciata del teatro alla Cannobbiana; v’è stato concerto di musica e dopo la mezzanotte del venerdì ballo. S’impara a ballare anche per l’anno, e ciò forse renderà più moderato il Carnevale” (Milano, 19 ottobre 1779).
Pietro Verri fu così testimone, e talora anche protagonista, del sovvenire di una nuova epoca, nella quale ogni grande evento, ogni cambiamento sociale aveva una ricaduta su ciò che andava in scena a teatro, in un gioco di reciproca e biunivoca influenza. Consapevole di ciò, Pietro non si limitò ad assistere agli spettacoli milanesi, ma costantemente si tenne informato su quanto avveniva nel resto d’Italia e d’Europa, anche procurandosi e studiando opere teoriche, scrivendo lui stesso sulla musica e sul teatro o, ancora, compiendo ricerche erudite sulle rappresentazioni milanesi nei secoli precedenti, in una costante ed appassionata ricerca che può essere considerata un’ampia, ancorché inevitabilmente frammentaria, operazione culturale di sprovincializzazione intellettuale di Milano.
IL PALCO ALLA SCALA DI VERRI E BECCARIA
Mi è stato possibile identificare con esattezza il palco della Scala preso in affitto da Verri e Beccaria grazie ad un passo del cosiddetto Manoscritto per Teresa, le memorie vergate da Pietro Verri per la figlia: “Tutte le sere vi andava colla Marietta e avevamo presa a metà colla Marchesa Beccaria la Loggia di Casa Belgioioso cioè la seddicesima alla dritta prima fila”. L’informazione di Verri corrisponde a quanto riportato dall’Elenco dei palchi di ragione privata e de’rispettivi propietarj, pubblicato nel volume Notizie storiche e descrizione dell’i.r. Teatro della Scala (1856): il sedicesimo palco della “fila prima destra” risulta infatti quello di proprietà dei conti Belgioioso. Dunque, guardando verso il palcoscenico, il sedicesimo palchetto a destra del primo ordine (ovvero il terzo a partire dalla porta d’accesso alla sala) è quello che occupavano Verri e Beccaria durante le quattro annate 1778-1781.
I bombardamenti della notte fra il 15 e il 16 agosto 1943, pur sventrando il teatro, ne risparmiarono la struttura originaria, e con essa il palchetto dei nostri Illuministi, tuttora esistente.
GLI SCRITTI
Pietro Verri (1728-1797) fu, con il fratello Alessandro e Cesare Beccaria (l’autore del Dei delitti e delle pene, 1764), tra gli animatori dell’Illuminismo milanese. Con loro fu protagonista dell’attività intellettuale svolta dal circolo della Società dei Pugni e dalla rivista “Il Caffè” (1764-1766). Per tutta la vita si dedicò allo studio e alla riflessione filosofica e, con egual passione, al lavoro nell’amministrazione imperiale, impegnandosi in prima persona nella grande opera di riforma della Lombardia austriaca. Personaggio di vasta cultura e attento ad ogni forma di sapere e occupazione umana, fu autore di scritti teorici e polemici su diversi argomenti: dall’etica alla politica, dall’economia al diritto, dall’estetica all’arte. Di fondamentale importanza le sue Osservazioni sulla tortura (1777), le Meditazioni sull’economia politica (1771), le Meditazioni sulla felicità (1763) e il Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1773), ammirato e citato anche da
Kant. Un documento storico di grande rilievo è costituito dal fittissimo carteggio intrattenuto per un trentennio con il fratello Alessandro. Per approfondire, si veda Carlo Capra, I progressi della ragione: vita di Pietro Verri, Il Mulino, Bologna, 2002.
IL PALCO ALLA SCALA DI VERRI E BECCARIA
Mi è stato possibile identificare con esattezza il palco della Scala preso in affitto da Verri e Beccaria grazie ad un passo del cosiddetto Manoscritto per Teresa, le memorie vergate da Pietro Verri per la figlia: “Tutte le sere vi andava colla Marietta e avevamo presa a metà colla Marchesa Beccaria la Loggia di Casa Belgioioso cioè la seddicesima alla dritta prima fila”. L’informazione di Verri corrisponde a quanto riportato dall’Elenco dei palchi di ragione privata e de’rispettivi propietarj, pubblicato nel volume Notizie storiche e descrizione dell’i.r. Teatro della Scala (1856): il sedicesimo palco della “fila prima destra” risulta infatti quello di proprietà dei conti Belgioioso. Dunque, guardando verso il palcoscenico, il sedicesimo palchetto a destra del primo ordine (ovvero il terzo a partire dalla porta d’accesso alla sala) è quello che occupavano Verri e Beccaria durante le quattro annate 1778-1781.
I bombardamenti della notte fra il 15 e il 16 agosto 1943, (foto bombardamento) pur sventrando il teatro, ne risparmiarono la struttura originaria, e con essa il palchetto dei nostri Illuministi, tuttora esistente.

IMMAGINI A COMMENTO
Copertina
Alessandro Verri (scrive) e Cesare Beccaria (legge) seduti al tavolo di sinistra, Luigi Lambertenghi (a sinistra) e Pietro Verri (a destra) seduti al tavolo di destra giocano a tric-trac, Alfonso Longo (di spalle perché il pittore non l’aveva mai visto), Giambattista Biffi (in piedi dietro il tavolo di Alessandro), Giuseppe Visconti di Saliceto (in piedi legge una lettera).
Il Regio Ducal Teatro
Ritratto di Pietro Verri (Milano, 1728 - 1797)
Ritratto Carlo Firmian (Mezzocorona, 1716 - Milano, 1782)
Wolfgang Amadeus Mozart , che suona l’organo da bambino
(Salisburgo,1756 – Vienna, 1791)

Il Regio Ducal Teatro
(interno)
Incisione del 1745 ca. mostrante la chiesa gotica di Santa Maria della Scala, poi demolita per costruire il celebre Teatro milanese, (Vedute di Milano, Marc'Antonio Dal Re)
Teatro “de’ Quattro Cavalieri”
(oggi, Teatro Fraschini, Pavia)