Anno 10 - N. 29/ 2011


“La gioventù è un’ebbrezza senza vino, / la vecchiaia se beve torna giovane” [...]

IL LIBRO DEL COPPIERE - NEL DIVANO DI GOETHE

Poi ci vuole il tintinnio dei bicchieri, il rubino fulgente del vino; così con le più splendide ghirlande, attiri bevitori e amanti. Johann Wolfgang von Goethe. Il Divano, Libro del Cantore. Elemente.

di Giulio Cesare Maggi



Due uomini contemplano la Luna (1819-20)

Caspar David Friedrich

Dresda, Staatliche Kunstsammlungen

La letteratura romantica tedesca ebbe fin dalla sua origine tra i topoi fondanti quello dell’esotismo: si tende ad interpretare tale atteggiamento come una fuga dalla realtà contingente, una sorta di trasporto verso altre epoche, in particolare il Medioevo, ed altri luoghi, quasi esclusivamente il mondo orientale.
Lontano dalle costrizioni di un Illuminismo fin troppo razionale, il poeta romantico acconsente a quanto scriveva Novalis: “Quando conferiamo al comune un senso più elevato, all’ordinario un aspetto misterioso, al noto la dignità dell’ignoto, al finito un’apparenza infinita allora io lo romanticizzo”.
Già l’incontro di Goethe con la filosofia tedesca della fine del Settecento aveva condotto il Poeta ad essere un importante declinatore dello Sturm und Drang, il canone iniziale del Romanticismo tedesco. Sempre in funzione dello spunto “esotico”, Goethe, verso l’inizio della seconda decade dell’Ottocento, si era dato allo studio approfondito delle lingue persiana ed araba e delle relative letterature, certamente le più significative e ricche tra quelle orientali. Per conoscere al meglio costumi e mentalità di quei paesi, accanto allo studio linguistico per il quale fu aiutato da dotti amici delle Università di Weimar ed Heidelberg, Goethe si documentò con la lettura di opere di viaggiatori europei che a lungo avevano vissuto in Oriente.
A cominciare da Il Milione di Marco Polo egli lesse le opere di Autori del Cinque e Seicento onde avvicinarsi a quelle realtà “attraverso gli occhi di coloro che si siano da molti anni applicati a contemplare queste cose remote e quanto mai singolari”.
Risultato di questi profondi studi e ricerche fu la pubblicazione del Divano tedesco nel 1817, seguito nel 1827 dal Divano occidentale-orientale, arricchito questo nell’edizione definitiva da Note e Dissertazioni che ne favorivano la comprensione. Del Divano Goethe scriveva: “è titolo di lode adattarsi con simpatia alla comprensione di una diversa popolazione, cercando di assimilarne l’uso linguistico, saperne condividere la mentalità e coglierne i costumi”. Ciò avrebbe dovuto anche condurre il Lettore al riconoscimento di anni di intenso lavoro affrontato per l’elaborazione del Divano. È forse la prima volta che Goethe si preoccupa di un tale aspetto ma, come dice l’Ecclesiaste “c’è un tempo per tacere ed un tempo per parlare”.
Lo studio della poesia persiana e in genere di quella orientalizzante pone Goethe di fronte ad una situazione poetica che egli non esita a definire “pericolosa”. È un mondo che lo attrae irresistibilmente e nel contempo lo spaventa.
Nel Divano Goethe evita completamente l’orientalismo romantico, come afferma Ludovica Koch nell’Introduzione alla traduzione italiana con testo a fronte (Milano, Rizzoli, 1990). “La pretesa del Divano – prosegue la Koch – è la più alta e temeraria che un libro possa pretendere”. Esso vuole – e qui è Goethe stesso che parla – “riunificare tutte le cose separate da sempre, come ha fatto Dio all’inizio”. E il Poeta ottiene questo effetto con l’ampio uso di ossímori, dei quali il Divano è veramente ricco, una sorta di «felice infelicità» che si attaglia sia al testo stesso sia alla sua eventuale ambiguità, e persino al vino… del quale diremo più avanti.
E questa volta Goethe – scrive ancora la Koch – parte qui “con la mentalità pragmatica di un avventuriero e di un mercante, con le ipotesi sulla storia di un archeologo”. Infatti in epigrafe alle Note e Dissertazioni sul Divano egli ha posto questi semplici quanto significativi versi:
“Wer das Dichtung will verstehn
Muß ins Land der Dichtung gehen.
Wer den Dichter will verstehen
Muß in Dichters Lande gehen”.

[Chi vuol comprender la poesia
Entri nel suo paese.
Chi vuol capire il poeta
Vada nella sua terra.]

Sappiamo che l’interesse di Goethe fu prevalente nei riguardi della poesia e della prosa persiane, tale da sorpassare di gran lunga quello per il restante Oriente.
Nondimeno egli non trascura ogni fonte nella quale siano insiti spunti poetici, anche molto antica.
E così il Libro di Ruth, uno dei gioielli letterari della Bibbia, scritto probabilmente avanti l’esilio di Israele in Babilonia, come pure il Cantico dei Cantici sono pura poesia ed alla luce di questa poesia, che del resto, pervade gran parte dell’Antico Testamento “possiamo sperimentarci, illuminarci ed educarci”.
E degli Arabi, ancor prima di Maometto, sono note alcune poesie - talora pervase da una vena malinconica che - scritte su fogli bordati d’oro - venivano appese alle porte del Tempio della Mecca. Ma accanto a queste Goethe presenta nelle Note al Divano, un breve poema di carattere bellicoso, tinto di spirito di vendetta, sentimento più proprio all’arabo che al persiano. La vendetta tribale è così faticosa che

“oggi ritorna lecito
il vino già proibito.
La mia fatica immane
ha meritato questa concessione”.

[…]

“Dammi allora il bicchiere
Savan ben Amre…”.

Ma è al popolo ed alla poesia dei persiani – il vero motivo della fatica goethiana – che il nostro Poeta riserva la massima attenzione, affinché il Lettore si immedesimi in quella incomparabile civiltà.
Non seguiremo qui la storia degli antichi Parsi, quella dello Zoroastrismo e neppure quella dei Califfi che governarono questo vasto Impero se non per citare Mahmud di Gazna, il sovrano di origine turca che regnò dal 999 al 1030, conquistatore dell’India, “famoso quanto Alessandro Magno”: a lui Goethe, nelle Note, conferisce il titolo di Re dei Poeti.
Per gli oltre quattrocento poeti che a vario titolo erano presenti a Corte, il sovrano designò un principe dei poeti, con un grado simile a quello di Vizir. Tra i celebri poeti persiani di quell’epoca si ricorda in particolare Firdusi, morto nel 1030, autore dello Schah Named , il Libro dei Re, al quale Goethe nel Libro delle Meditazioni, parte del Divano, fa dire:
Parla Firdusi

“La ricchezza cos’è? Sole che scalda.
Lo gode il mendicante quanto noi.
Ma al ricco non dispiaccia
la profonda, bella
gioia del mendicante”.

Che questo assunto fosse divenuto caro a Goethe sarebbe dimostrato – secondo quanto scrive la Koch – dal fatto che il distico di Firdusi trova la sua traccia nel celebre verso 1025 dell’Urfaust (la seconda parte del Faust) ove questi, rivolto a Mefistofele, dice:

[…] Geniß een macht geme

[Il godimento rende sodali].

E poi Nezâmi, Rumi, Saasi ed in particolare Hâfez, che muore verso la fine del Milletrecento: significa il suo nome “studioso profondo del Corano” colui che, mandatolo a memoria, è in grado di evocarne i versetti nelle circostanze idonee, e tal titolo è rimasto a questo poeta, cui Goethe largamente si ispirò nella stesura del Divano.
Abituato ad una corretta interpretazione del sacro testo che spesso nei paesi dell’Islam era soggetto ad interpretazioni che si allontanavano da quanto di buono e di puro esso conteneva, il Poeta stesso dice:

“Per mezzo del Corano io tutto
quello che mi riuscì ho compiuto”.

Ma nella lirica l’atteggiamento di Hâfez appare del tutto diverso dai modelli religiosi coranici. Dice infatti in proposito Goethe “Una incessante moderata vivacità vi scorre. Allegra e saggia contentezza di poco, prendere parte alla ricchezza del modo di guardare da lontano nei misteri della divinità rifiutando tuttavia pratiche religiose e piacere dei sensi, le une come l’altro: come si addice a questo genere poetico che, qualunque cosa sembri promuovere e insegnare, deve serbare comunque una scettica mobilità”.
Chiude questa serie di poeti Gâmi morto nel 1424, autore del poema Jusuph e Zoleyxa (poi Suleika in Goethe), nel quale la protagonista tramuta l’impossibile amore di un sogno in amore per Dio, comunque “un amore senza frutto” dice Goethe ne Il Libro dell’Amore del Divano.
Tale “settemplice costellazione” degli antichi poeti persiani ebbe la fortuna – sottolinea Goethe – di poter operare in un periodo nel quale la natura poteva rivelare al poeta nuovi tesori. Ed è straordinariamente interessante quanto egli dice nelle Considerazioni generali: “Il supremo carattere della poesia orientale è ciò che noi tedeschi chiamiamo intelligenza, il prevalere di una guida dall’alto; in esso si riconoscono tutte le altre qualità, senza che nessuna, affermando un suo speciale diritto, riesca a prevalere”. Quale equilibrio in questo giudizio!
Né a questi massimi sono mancati successori fino all’Ottocento, che tuttavia hanno fatto prediligere anche ai Persiani, fino all’epoca di Goethe, poesia e prosa dei loro poeti antichi…
Non verrà qui trattato il tema della poesia araba ma, in breve, si ricorderanno gli Autori che Goethe lesse, cioè i viaggiatori dell’Oriente: oltre al già citato Il Milione di Marco Polo (nel testo detto Livres des Meraveilles, dettato in francese a Rustichello da Pisa durante la prigionia), la relazione di un suo viaggio e di un soggiorno in Estremo Oriente ed in India e poi a Ceylon ed al Madagascar: uomo di merito Marco Polo, ma dai suoi scritti si ricavano solo impressioni, dice Goethe. Così pure importanti ma guastate da traduzioni riduttive in basso e alto tedesco, con finalità di divulgazione popolare, le Memorie di John de Mandeville, medico inglese del XIV secolo, relative ai suoi viaggi in Oriente.
Ma l’attenzione di Goethe si rivolge soprattutto alle Lettere dalla Persia del nobile romano Piero della Valle, dell’inizio del Seicento. Egli sottolinea nelle molte pagine dedicate a questo grande viaggiatore che spese la vita in questi paesi, in particolare in Persia: “Dovunque in Oriente, ma specialmente in Persia, si incontra una certa ingenuità ed innocenza di comportamento, in tutte le classi sociali, fino in personalità del trono”. E verso sera attorno all’imperatore vi è il circolo dei cortigiani “nel quale girano coppe piene di vino […] alcune di queste sono di tal peso che l’ospite ignaro lascia cadere la coppa […] con estremo divertimento del signore e degli iniziati”.
E non pochi si ubriacano. Che dire poi dei divertimenti del signore nell’harem, spesso sede di grandi risate. Insomma, un mondo allegro, senza soverchie formalità. Non molti anni dopo il Della Valle furono alla Corte del Re di Persia il tedesco Adam Oelschläger (Olearius) e, in seguito, il de Tavernier e lo Chardin.
Ben si distingue l’opera di Goethe da quell’utilizzo che la letteratura europea del Settecento fece delle fantasticherie sul mondo orientale: egli impiegò, se vogliamo, “modalità sperimentali” basate su dati storici di prima mano e su letture dirette, alle quali poté avere accesso. Aveva fatto ricorso anche agli scritti di Heinrich Friedrich von Diez, ambasciatore a Costantinopoli, vescovo e poi privato scrittore di cose orientali. Così pure aveva consultato le antologie di William Jones e di Joseph von Hammer-Purgstall, rivelatesi fondamentali per la stesura del Divano.
Dice Goethe che l’uomo, e quindi anche il poeta, “non è che uno straniero ottenebrato sopra la scura terra”: solo un “beato struggimento” è in grado non solo di rendere attuali i messaggi della poesia orientale ma di far giungere “alla trasparenza” colui che non vuole restare “torbido”. Lasciamoci perciò coinvolgere da questo “vento” simbolo del “volo stesso della vita”.
Molto opportunamente fa notare la Koch come il Divano inizi con la poesia “Egira”, l’Emigrazione di Maometto dalla Mecca a Medina nel 622, data d’inizio dell’Islam. Ma per Goethe Egira qui significa la propria fuga dalla Renania dopo la Restaurazione del 1824: “la fuga materiale della giovinezza e quella mentale in Oriente. Lo stesso Divano viene rappresentato programmaticamente come un’avventura, un «vagabondaggio» tra i temi tipici di Hâfez, la giovinezza, la fede, la poesia, l’amore”.
E a questo viaggio fantastico egli si lascia andare in modo straordinario e, all’apparenza, casuale. È un approccio del tutto nuovo ed elegante al mondo orientale ed il Poeta “non fiuta, neppure da lontano, i vapori dell’oppio”, in nulla cedendo alle lusinghe della letteratura orientaleggiante dell’epoca sua, ma anche delle precedenti che, partendo dell’Ellenismo erano pervenute fino al Settecento.
Ma è il vento che muovendo la polvere – al pari della vita – scopre e cancella le cose del passato e del presente, soggette come sono allo stesso destino che le discopre e le annulla: nel turbinio di questa tempesta di sabbia tutto può annullarsi: si può persino credere che tutto non sia neppure esistito. Ma da questo caos rinasce la vita, dall’antico sorge il nuovo. E scopo del Divano, come suggerisce Ludovica Koch, appare essere un vero tentativo di “riunificare le cose sparse, separate da sempre”: uno sforzo titanico, quasi divino.
E dal Libro del Cantore, il primo dei dodici di cui si compone il Divano occidentale-orientale, ecco i versi dell’Egira, l’Emigrazione, ora anche goethiana, nel Mondo nel quale i sentimenti si esprimono in una “letteratura senza tempo”:

“Laggiù, nella purezza,
nel giusto, io voglio immergermi
negli abissi all’origine
della specie degli uomini,
quando non si rompevano
la testa, ma apprendevano
da Dio scienza celeste
nelle lingue terrestri”.

Dei dodici Libri del Divano qui si parla solamente del Saki Nameh, il Libro del Coppiere, ma anche di qualche poesia del poeta arabo-persiano Abu Nuwàs (760-810 c.ca), detto “il ricciutello”, le cui poesie bacchiche sono state rese in italiano da Francesco Gabrieli (Abu Nuwàs, Antologia bacchica, Alpignano, Tallone Editore-Stampatore, 1990).
Di cultura sostanzialmente araba il poeta visse e poetò dapprima a Bàssora e poi a Bagdad alla corte del celebre Califfo Harun ar-Raschid, quello delle Mille e una notte, e poi a quella del figlio e successore Amìn. La sua vita e la sua poesia furono dedicate alla spensieratezza, al vino, all’eros femminile e maschile: non per nulla la sua poesia è stata definita anacreontica.
L’accostamento di questa parte del Divano goethiano ad alcune delle poesie dedicate al tema del vino di Abu Nuwàs non sembri perciò totalmente stravagante se si considera la avversione coranica al vino stesso, l’astinenza dal quale è uno dei precetti di comportamento fondanti e in genere osservati dagli Islamici.
Già in età preislamica, ma soprattutto nel periodo omayyade, malgrado il divieto coranico, la poesia bacchica ebbe notevole sviluppo, con l’esaltazione degli straordinari effetti del vino: fu Abu Nuwàs a portare a perfezione questo genere poetico nell’ámbito della poesia araba. L’eccellente traduzione di questo suo particolare divân ad opera di Francesco Gabrieli ci permette di gustarre alcuni tra i più significativi esempi del genere.
Frequentatore di taverne, di conventi cristiani, di case ebree ove egli può ottenere il “vietato liquore”, Abu Nuwàs ne fa teatro delle sue “gesta” anche da quel miscredente che si professa, quasi sino alla fine della vita. Oltre alle caratteristiche organolettiche – diremmo con termine poco adatto – il colore, la lucentezza, il sapore, sono soprattutto gli effetti inebrianti che il poeta esalta, fa propri, e che gli danno l’ardire del suo eros. Ma non solo: ebbrezza e licenza sessuale sono le due corde di questa sua poesia e poca differenza fa quale sia il soggetto delle sue attenzioni amorose, sempre nel fascino di una sognante ebbrezza. Tramite il Sufismo e la poesia persiana del Medioevo, la divina bevanda riapparirà, dopo secoli, ad esaltare i poeti persiani per la sue straordinarie virtù.
Poco, e forse mal valutata dalla critica germanica, la poesia di Abu Nuwàs, sostiene Gabrieli, ben si caratterizza per la sua “spontanea fisionomia individuale”. Riportiamo qui di seguito alcuni versi tratti dalla Antologia bacchica, come il Traduttore ha titolato la propria scelta.
La vite che Dioniso portò fino in India cinquemila anni prima dell’era volgare produceva ora il meglio di sé.
Ecco ora una lieta brigata di valenti giovani spendaccioni, alla ricerca del miglior vino, che si rivolgono al vinattiere:

“Approfitta della generosità dei nobili:
dì pure quel che vuoi,
che ti sei assicurato un buon guadagno,
come David predò le spoglie di Golia.
Vediti bene quindi di questi generosi
avventori quando sarem partiti
dalla tua casa, crepa pure.
Disse: «Io ho quel che cercate,
aspettate solo il mattino», e noi: «Portalo ora, senz’altro»
Esso è appunto il mattino
e il suo chiarore non può andar disgiunto
da quello della luce.
Esso appunto è il mattino e il suo
chiarore muta il color della notte,
quando getta scintille come rubini”.

Osserva Gabrieli che “panegirici e vituperi, il madhi e il highia, che sono le due facce opposte della poesia araba classica, furono da lui intensamente coltivati, per motivi pratici, con risultati spesso mediocri”.
Molto meglio gli riuscì la poesia amorosa con pagine brillanti come quella dedicata alla schiava Giaman e così pure all’eros maschile, tra le più scabrose del suo divân.
Illustre predecessore del Libro del Coppiere goethiano fu, nel suo divân, con uguale titolo, Hâfez: un elogio del vino e dello stato di ebbrezza che conduce, attraverso l’estasi, ad uno dei temi prediletti della poesia persiana, quello del coppiere, oggetto della passione amorosa del poeta.
A dispetto della proibizione coranica dell’uso del vino, esso è la via dell’estasi, un concetto zoroastriano e perciò preislamico, un vero “Vino Mistico” come sottolinea Bausani nel suo saggio “Il Supremo dei Magi e il Vino Mistico” (in Letteratura persiana. Firenze, Sansoni 1968).
Ma già nel XIII secolo, all’epoca de Le Mille e una notte, in un periodo nel quale l’Islam è condizionato da cristiani, mongoli, turchi ed egiziani, si sente il bisogno di un ritorno alla purezza e bontà del messaggio coranico. Così guai al vinattiere, ebreo o cristiano che sia, il cui vino greco o persiano vien gettato nelle strade, mentre egli corre il rischio di essere bastonato.
Nelle Note al Divano occidentale-orientale, dice Goethe: “Né la smodata inclinazione al vino quasi proibito, né un tenero sentimento per la bellezza di un ragazzo che cresce (trattato tuttavia, in conformità ai nostri costumi in tutta purezza) potevano mancare nel Divano. La reciproca simpatia della prima e dell’estrema età è indizio, in realtà, di un rapporto genuinamente pedagogico. L’appassionata simpatia del ragazzo per il vecchio è un fenomeno niente affatto raro, bensì raramente messo a profitto. Si scorga qui la relazione del nipote col nonno […]. Proprio in questa relazione si sviluppa il discernimento dei ragazzi; essi sono attenti alla dignità, all’esperienza, al potere degli anziani […]”.
Apprendiamo – attraverso l’intermediazione della Koch – che nel Goethe-Jahrbuch del 1951 è riportata la notizia che alcuni spunti pedagogici del Libro del Coppiere vennero al Poeta in occasione di un pranzo in casa di un amico teologo, il cui figlio dodicenne aveva avuto l’incarico di versare il vino ai commensali: vi sarebbe stata addirittura una “poesia d’occasione”, come allora usava, improvvisata da Goethe sul tema pedagogico prima accennato, avanti che esso comparisse esplicitato nel Divano.
Nella taverna beve solitario il poeta – di questa consuetudine esisteva già l’elogio di Hâfez – mentre pensa che il vino è antico almeno quanto il mondo (e allora perché proibirlo?): “chi beve guarda Dio più vivamente in faccia”.
Come e perché farne a meno?

“La gioventù è un’ebbrezza senza vino, / la vecchiaia se beve torna giovane”.
E se non sai bere non devi amare, ma se non sai amare meglio non bere”.

L’oste è scortese ed ora entra in scena il giovane coppiere:

“Entra pure, bel ragazzo, / non fermarti sulla soglia”, e dalle sue mani “ogni vino sarà squisito e limpido”.

E il coppiere geloso allontana le donne: ad una egli dice:

“Le tue guance, il tuo seno / sposseranno il mio amico”.

Il poeta, pur in stato di ebbrezza, desidera ancora bere ed il ragazzo gli da mandorle fresche e gli dice:

“Ti guardo in faccia, / dà un bacio al tuo coppiere”.

E ancora:

Se canti mi piace sentirti/ se taci rimango in ascolto./ ma più ancora ti amo / se per memoria mi baci. / Le parole si perdono / il bacio resta nell’intimo”.

Allora, o poeta:

“Canta per l’altra gente / baci per il tuo coppiere”.

Al poeta, che ha fama consolidata di beone, chiede il giovane:

“Dimmi solo perché i giovani / così poveri di virtù / ancora così schiavi degli errori / sono più saggi dei vecchi”.

Di rimando il poeta:

“Ragazzo caro, appunto / perciò rimani giovane / e saggio”.

Versi di stupenda poesia dice ora il ragazzo:

“In faccia a Dio è magnifico tutto / proprio perché è il Supremo”, ed al poeta-maestro: “Le cose/ che ho sentito da te / non mi lasciano il cuore”.

L’ammirare l’Universo a mezzanotte – pensa il ragazzo – sicuramente è desiderio del poeta. Qui i versi celebri di questa lirica famosa:

“Denn ich weiß, du liebst, das Droben,
Das Unendlichten zu schauen”

[Perché so che ti piacciono,
le regioni supreme, guardare l’infinito.]

E ancora il tema dell’Aurora riemerge, l’Aurora dai piedi rosati, l’Eos “rodoctulos” di Omero.
“Entra in casa e chiudi la porta, ragazzo: bello come sei c’è il rischio che essa ti rapisca al posto di Espero” gli suggerisce, quasi ordina, il poeta.

Ora il ragazzo dorme, e chiudendo gli occhi pensa:

“Come dolce è il tuo dono / ma più dolce è il tuo amore”.

E qui converrà ancora una volta dar la parola alla straordinaria sensibilità di Goethe anche nel riguardo di questo tema, del rapporto tra giovane ed anziano, anche oggi malinteso nella sua sostanza.

“Ma quanto mai commovente resta il sentimento ambizioso del ragazzo che, stimolato dall’elevato spirito della vecchiezza, avverte dentro di sé uno stupore che gli precisa che anche in lui possono svilupparsi simili doti”.

Pur sempre uomo del suo tempo e della propria onestà morale, Goethe non poté esimersi dal comprendere, se non approvare, quello che Saadi scriveva nel Giardino delle Rose circa il suo amore per un giovane poi morto: “Io sedetti lungo tempo sulla sua tomba come un guardiano e composi sulla sua morte e sulla nostra separazione molti canti che rimangono ancor sempre commoventi per me e per altri”.

Gli anni non rendono bambini come si dice: ci trovano soltanto fanciulli sul serio.
Johann Wolfgang von Goethe