Anno 10 - N. 29/ 2011


OGGI come IERI

IL CUOCO E LA MASSAIA quote rosa in cucina

L’uomo svolgeva la sua parte all’esterno della dimora procurando il cibo, la donna, tra le mura domestiche, lo cucinava: forse anche per questo l’uomo ha preso più facilmente rilevanza sociale in quanto figura “pubblica”.

di Ambra Morelli




Se facessimo il gioco dell’associazioni di idee, volendo accomunare professioni e persone e dicessi “alta cucina”, la risposta attesa sarebbe “cuoco” e non… “cuoca”. Se per lo stesso gioco dicessi “trattoria” o “cucina casalinga” la risposta sarebbe, con molta probabilità, “cuoca” e non “cuoco”, connotando così molto precisamente anche in tema di gastronomia, la capacità professional-artistica quale sostanziale esclusiva dell’uomo.

Anche nei nomi si rivela la differenza: pur disegnando la stessa attività “lo chef” e “la cuoca” indicando per il primo l’espressione di una passione trasformata in mestiere, per la seconda la solo ispirazione domestica di un ruolo secondario, l’abitudine senza guizzi d’estro di una giornaliera cucina “popolare”. Cioè la differenza tra “alta ristorazione” e più semplici “ricette di famiglia”.

Dal precipuo compito dell’allattamento della prole, alla donna è riservata, e riconosciuta da sempre, la preziosissima consuetudine ad occuparsi del nutrimento della famiglia, quindi del mondo, una quotidianità silenziosa, necessaria e anche creativa sì, ma senza l’insegna del talento e senza notorietà, né stile, né arte.
Claude Lévi-Strauss, così come altri antropologi, sosteneva che il cibo e le pratiche che riguardano la sua preparazione e assunzione, costituiscono sistemi di comunicazione da cui prendono forma le strutture sociali, le distinzioni di classe e i rapporti ideologici.
Le mansioni tra i due sessi in tema alimentare, infatti, hanno avuto specifiche distinzioni: l’uomo svolgeva la sua parte all’esterno della dimora procurando il cibo, la donna, tra le mura domestiche, lo cucinava: forse anche per questo l’uomo ha preso più facilmente rilevanza sociale in quanto figura “pubblica”. Dal medioevo fino agli albori dell’epoca moderna, le funzioni ben distinte dei due ruoli erano comunque parificate nel valore, così le donne erano signore e padrone della casa in tutti gli aspetti compreso quelli riguardanti il cibo. Le donne coltivavano la terra e allevavano gli animali domestici per i consumi di famiglia, prodotti che si sarebbero trasformati in alimenti preparati, cucinati e consumati dalla famiglia. In occasione di banchetti erano le donne a decidere il menù, la disposizione dei posti a tavola, ecc.: non poco se si considera l’importanza di un convito per il periodo medioevale.

Alle corti rinascimentali, però la cucina che ha fatto la storia della gastronomia importante era in mano a figure maschili che, se diventavano autorevoli nel campo, potevano assumere persino la qualità di “maestro”. Figure maschili erano sicuramente lo scalco, il trinciante, il credenziere, lo spenditore incarichi complessi in realtà che è limitativo racchiudere nella definizione di cuochi. Erano figure di responsabilità perché avevano in mano il benessere nutrizionale del mondo sia aristocratico che ecclesiastico, esperienze importanti raccontate poi attraverso la stesura dei primi ricettari giunti fino a noi come testimonianza della cultura del periodo. Alle donne dell’epoca erano riservati, all’interno delle cucine non domestiche, più modesti compiti di manovalanza come quelli di “spennare polli, scuoiare lepri o governare il lesso”.

La donna quindi cucinava per la famiglia, questo in linea generale anche se, sfogliando alcuni ricettari del ‘500, si scoprono ricette redatte non solo da mano maschile ma elencate da donne-cuoco che descrivono la preparazione di pasti non solo domestici. Nel ‘700 una limitata presenza femminile alla direzione dei fornelli s’avanza: a Vercelli viene stampato un testo di una “cuciniera piemontese” in cui si insegnava ad “acconciare le vivande sì in grasso che in magro”. Ma sono casi isolati, la connotazione rimane quella della cucina quotidiana. E per molto tempo sono ancora gli uomini gestori di osterie o locali di ristoro fino a quando, nel periodo delle guerre mondiali, le attività di ristorazione vennero lasciate, per necessità, alle donne. Questo ha dato il via nel periodo post bellico al proliferare di trattorie amministrate dalle donne che, grazie alla loro abilità di gestire la quotidianità fatta anche di poche cose ma assolutamente gustose, di elaborare una tradizione gastronomica povera fatta di vegetali e farinacei quali ingredienti principali, si è sviluppata la ricchezza di una cucina di grande variabilità. Nell’epoca della Seconda Guerra Mondiale, periodo dominato dalla penuria di generi alimentari per i razionamenti imposti dall’autarchia, le donne si industriarono per riuscire a comporre una cucina gradevole e il più possibile nutriente con il poco che c’era a disposizione. È il periodo della cucina di guerra, della “cucina del poco e del senza” testimoniata dalla pubblicazione di manuali di cucina come nel 1942 con “La cucina autarchica” di Elisabetta Randi e “La cucina del tempo di guerra” di Lunella De Seta, nel 1943 “La cucina italiana della resistenza di Emilia Zamara, ed è di Petronilla, già dal 1941, la pubblicazione della raccolta di “Ricette per tempi eccezionali”, di un “Ricettario per i tempi difficili, e del “Desinaretti per… questi tempi” in cui si insegna ad utilizzare in modo gradevole i torsoli delle verze, le pelli delle patate, le interiora di pollo, la schiuma del brodo, a fare la maionese senza olio, la gelatina senza carne, i dolci senza zucchero, il cioccolato senza cacao e il caffè senza caffè.

Petronilla propone nuove tecniche e dà suggerimenti per preparare gli stessi piatti di prima ma senza gli ingredienti che molto più difficilmente si riescono a reperire. In quel periodo, ad opera di mani femminili si pubblicano numerosi manuali che hanno in comune la grande attenzione all’economicità dei piatti: è dell’epoca “Il talismano della felicità” di Ada Boni, vera bibbia della cucina domestica, peraltro ancor oggi in libreria.
La cucina di tutti i giorni, quindi abilità e funzione quotidiana della donna, si sviluppa a livello editoriale con la pubblicazione del giornale di gastronomia per le famiglie e per i buongustai “La cucina Italiana”.
L’incombente periodo di benessere, porta la gente a mangiare fuori casa e cominciano a guadagnar terreno le trattorie dove l’ostessa cucina i cibi con derrate semplici ma dai sapori intensi proponendo quindi una cucina “di casa” ma per tutti i ceti e le situazioni.
Le donne chef iniziano ad avere successo! Una ad esempio? La Bice che a Milano è diventata famosa ed emblema della buona cucina. In un mondo tipicamente maschile, le donne-chef sgomitano, cercano spazio dimostrando che con le loro abilità fanno onore alla professione. Ultimamente il panorama gastronomico anche nell’alta cucina, quella che traccia la via verso un modo nuovo di mangiare e di gustare, si è arricchito di talentuose “lady-chef” che declinano al femminile l’arte del cibo. Le cuoche stellate, l’altra metà del cielo della cucina di livello, vogliono finalmente sfatare il pregiudizio ancora molto sentito dai loro colleghi uomini che “…sia un mestiere troppo duro per le donne”.
Ma sicuramente lo è ad iniziare dal fatto che la parola “chef” non prevede il femminile…