Anno 11 - N. 31/ 2012


MALINCONIE MITTELEUROPEE

Una storia... prima della diaspora

Nel vecchio dialetto viennese l’augurio “alla-kawalla” deriva curiosamente dall’espressione italiana essere a cavallo, far vita da gran signore, essere insomma “a cavallo”.

di Giulio Cesare Maggi



Ufficio telegrafico (1902)

Architetto Otto Wagner (Vienna 1841 - 1918)

Vienna

“Wien, Wien nur Du allein” diceva il valzer che Strauss aveva dedicato all’amata capitale dell’Impero Austro-Ungarico e che G***, il protagonista di questa breve novella, aveva ballato anche la notte del Capodanno 1892.
Solo Vienna era stata capace di tenere uniti per centinaia di anni “i miei Popoli”, come diceva l’Imperatore Franz Joseph: prima della diaspora del 1918.
Ma lasciava dietro a sé, ed è ancora viva ed operante, quella civiltà mitteleuropea, senza la quale l’Europa unita sarebbe sicuramente meno ricca, o, se vogliamo, più povera non solo di civiltà, ma anche di quel senso del dovere che per questi Popoli costituì la religione civile, nonché l’ispirazione di un modo di essere ineffabile.
È pur vero che, come dice il viennese Wittgenstein “ineffabile è anche l’aroma del caffè” ma, al contrario di questo, l’aroma della Mitteleuropa è assolutamente persistente.
***
Il chiarore lattiginoso del primo mattino filtrava attraverso i vetri della finestra della camera dell’albergo di Dorotheengaße. G*** gettò uno sguardo all’orologio da tasca posato nella sua custodia di velluto verde posta sul comodino da notte: mancavano pochi minuti alle sette.
G*** si alzò, si preparò, indossando una camicia di seta con solino e un abito da città color grigio chiaro filettato ai bordi in grigio scuro: sulla cravatta a plastron una spilla d’oro con un’ametista, regalo della madre per i suoi diciotto anni, poco prima che egli lasciasse la cittadina di S*** in Pannonia, dopo la morte del padre, un eminente studioso del Talmud, spentosi a quarantasei anni di età per tifo.
Scese le scale dell’albergo ove risiedeva dall’autunno del 1888, dal suo arrivo a Vienna.
Il portiere di notte, assonnato, lo salutò rispettosamente battendo i tacchi, ma con un sorriso cordiale (G*** era così giovane!). Uscì in Dorotheengaße entrando subito nel Graben, a quell’ora quasi deserto, dirigendosi verso la Hofburg per prendere un mokka da Demel. Le commesse con crestine e grembiulini bianchi inamidati sul lungo abito nero disponevano nelle vetrine torte e trofei di dolci per la cena di fine d’anno, delizia della vista e dell’olfatto in attesa di esserlo per il palato…
Uscito, accese un virginia, il primo di una lunga serie quotidiana, dirigendosi verso il Duomo di Santo Stefano.
Anche se non era cattolico vi entrò attratto dalle voci del coro di ragazzi che provavano un mottetto di Schubert, il Tantum ergo in Es dur. Portato nell’empireo del sublime G*** pensava alla patria lontana, all’infanzia ed alla prima giovinezza passate negli studi che gli consentivano, pur così giovane, di padroneggiare ebraico, latino e greco.
Era commosso fin quasi alle lacrime (era solo al mondo, orfano con due sorelle spose a Leopoli). Sabato era stato al Tempio ma doveva riconoscere - e lo faceva senza difficoltà - che il canto della liturgia cattolica era veramente eccelso e foriero di pensieri celestiali.
Si inoltrò poi verso la stazione dei fiacre in Wollzeile lì vicina. I conducenti che bene lo conoscevano - era un cliente abituale - lo salutarono augurandogli un felice anno nuovo e gridando in coro “Alla-kawalla, mein Herr”. Nel vecchio dialetto viennese l’augurio “alla-kawalla” deriva curiosamente dall’espressione italiana essere a cavallo, far vita da gran signore, essere insomma “a cavallo”. Il termine è rimasto nel linguaggio corrente del popolo fin da quando l’italiano, almeno a Vienna, era la seconda lingua, parlata a Corte e dai Signori.
G*** lasciò loro qualche corona per uno snaps e montato in carrozza si fece condurre al Café Central per far colazione: il caffè era ed è ritrovo di letterati e poeti ma anche di uomini politici in cerca di notorietà.
Ancora pochi avventori tra i tavolini e alle pareti i giornali austriaci e stranieri, nei loro supporti a manico, così comodi per la lettura, pronti a fornire le ultime notizie giunte via telegrafo.
Ordinò melange e palatcinchen al cioccolato, accese un virginia e si immerse nella lettura del Corriere della Sera (conosceva perfettamente l’italiano, oltre a cinque o sei lingue oltre all’ungherese ed al tedesco) ed aveva in animo di fare un lungo viaggio in Italia, paese con il quale aveva commerci importanti nel campo floreale e delle foglie colorate, in gran voga in quel momento.
Pioveva ora dalla cupola di vetro del Café Central una luce più chiara che rendeva quasi fastidiosa quella giallastra della illuminazione elettrica.
Fece chiamare un fiacre e ordinò di portarlo a Grinzing: in realtà desiderava attraversare il bosco viennese così bello anche spruzzato dalla neve, facendo sostare la vettura a più riprese nei posti più romantici.
Erano ormai giunti a Grinzing: G*** condusse il fiaccheraio in una Heurige a bere il vino asprigno e leggero della collina viennese. Quest’ultimo non si fece pregare e mangiò würsteln con kren, accettando poi un virginia che ripose a cassetta per gustarlo più tardi a comodo.
G*** aveva un invito a pranzo dagli amici von B***: vi erano tre graziose fanciulle in età da marito ed a G*** venne in mente la schubertiana “Casa delle tre ragazze”, uno dei suoi lied preferiti.

Come commerciante in fiori - era fornitore anche della Reale ed Imperiale Casa, nientemeno! - evitò di portare un omaggio floreale e ripassò da Demel per torte e cioccolatini. In una delle due, una splendida “Pischinger Torte”, con l’aiuto dell’Ober di Demel, aveva fatto porre in cottura una moneta d’oro da 100 corone di Francesco Carlo, datata 1824, trovata presso un piccolo antiquario in Kohlstraße. La sorte avrebbe deciso al momento del taglio chi fosse destinatario del prezioso dono: sperava G*** che sarebbe stata la più bella e giovane donna della tavolata.
Scrupoloso delle abitudini kasher G*** amava poco pranzare presso famiglie cattoliche o di non osservanti: ma per l’ultimo dell’anno non poteva sottrarsi a questo in fondo gradito impegno. Conoscendo le sue abitudini gli amici avevano preparato un pranzo squisito ma senza piatti che egli avrebbe dovuto rifiutare.
La moneta toccò in sorte alla nonna, Frau Lotte, e tutto si concluse in allegre risate.
Alla fine del pranzo G*** preparò, tra l’ammirazione di tutti, il “krampamopoli” all’ungherese: un’ampia zuppiera d’argento fu riempita a metà di zucchero cristallino e su di questo versato il contenuto di due bottiglie di acquavite ungherese, aggiungendovi chiodi di garofano e cannella in bacchette. Al tutto si diede fuoco: la bollente ed alcolica bevanda fu poi versata con un mestolo d’argento in bicchieri da the all’uso russo, con i manici di metallo e legno. La squisita bevanda era lievemente inebriante e si aggiungeva allo champagne, l’unico vino del pranzo. Si giocò a carte e a domino fino all’ora del the.
Ma la parte più interessante di quella fine d’anno 1892 era costituita dai festeggiamenti pubblici che a Vienna duravano dall’ora di cena fino al mattino successivo, 1° gennaio.
Prese congedo dai von B*** non senza rinnovare gli auguri per un felice anno nuovo e ritornò in albergo per riposare un poco, addormentandosi sul letto. Quando si risvegliò verso le ventuno, mentre si cambiava d’abito per indossare il frack sentì dalla strada, verosimilmente dal Graben, le note di una musica ben nota. “Wien, Wien nur Du allein” diceva il valzer di Strauss che G*** aveva ballato a carnevale con una mascherina sconosciuta (una giovane aristocratica o una piccola commessa? Egli non l’avrebbe mai saputo!). Sì, considerava ora, solo Vienna era stata capace di tenere uniti per centinaia di anni 12 milioni di tedeschi, 10 milioni di magiari e altri 30 milioni di sudditi di oltre 12 nazionalità diverse: “i miei Popoli” come Francesco Giuseppe amava chiamare quella che, da amalgama, sarebbe diventata pochi anni dopo diaspora di Nazioni.
G*** giunse al Graben: vicino alla casa che fu abitata da Mozart una banda militare, in elegante uniforme di gala, eseguiva marce, pezzi d’opera, valzer quasi senza interruzione; tutti pezzi molto noti se non popolari, inclusa la “Radetzky March”, scandita dal battito ritmico di mani dei numerosissimi ascoltatori. Un pezzo, mai sentito prima, attrasse la sua attenzione: era lento e solenne. Lesse sul cartello “Elgar. Pomp and Circumstance, marcia in Re maggiore”. Avrebbe saputo tempo dopo dagli amici della stamperia musicale “Artaria” di Dorotheengaße che si trattava di un pezzo celebre in Inghilterra, al quale il Principe Edward, il futuro successore della Regina Vittoria, aveva predetto maggior importanza e fortuna del “God save the Queen”.
Tutti i caffè, scintillanti di luci e specchi restavano aperti fino al mattino e le consumazioni erano offerte da proprietari e Ober in onore dell’anno che stava per cominciare.
Passò a prendere in carrozza Elisabeth ed insieme si recarono all’Hotel Imperial dove aveva riservato un tavolo per la loro cena. Elisabeth era bellissima, occhi celesti, lunghi capelli biondi, il piglio estroso ed elegante delle giovani donne viennesi: ella si muoveva con la naturale scioltezza della persona avvezza all’ambiente raffinato dell’Imperial. Molti occhi maschili la seguirono, con ammirazione per lei e con invidia per G***.
Durante la cena G*** le presentò il suo dono di fine d’anno. Si trattava di un bellissimo brillante incastonato in una spilla di alluminio, metallo allora rarissimo. Ballarono nel salone e a mezzanotte levarono i calici al nuovo anno promettendosi eterna fedeltà, che di fatto sarebbe durata solo un anno: ma questi sono, in tutti i tempi, i fatti della vita!
All’una G*** l’accompagnò a Palazzo P***, baciandole la mano e le labbra con passione.
Nuovamente in vicinanza del Duomo di Santo Stefano, acceso l’ennesimo virginia, si inoltrò in Kärntner Straße stracolma di gente che ballava e vociava con quella amabilità un poco rumorosa tipica dei Viennes. Ancora il pensiero corse all’amata Pannonia, ma deliberatamente non volle lasciarsi trascinare da ricordi malinconici. Lentamente tornò all’albergo, portando per il portiere di notte una bottiglia di sekt da bersi alle migliori fortune dell’Impero e a quelle personali.
Lo colse un sonno profondo e ricco di sogni sconclusionati, ma nei quali ricorreva la memoria nostalgica degli anni dell’infanzia, della famiglia così armoniosa, ora perduta, e mai abbastanza amata e rimpianta.
Esattamente un mese dopo questa memorabile giornata di fine d’anno, il 30 gennaio 1893 in una tenuta di caccia il Principe ereditario Rodolfo d’Absburgo e Maria Vetzera si tolsero la vita. Iniziò qui il dramma che travolse l’Impero, il finis Austriae. L’indistruttibile certezza basata sull’orgogliosa divisa dell’Imperatore Federico III di Absburgo, scomparso quattrocento anni prima, “Austriae Est Imperare Orbi Universo” (A.E.I.O.U.), dopo quella tragedia divenne assai minor certezza.
Quale sarebbe stato il futuro della duplice monarchia dall’aquila bicipite?
G*** non dimenticò mai negli anni a venire quel fine d’anno viennese. Gli eventi della vita lo condussero da prima in Russia, poi in Italia ed in vari Paesi europei. Ma il suo cuore era sempre all’amata Vienna, oltre che alla patria ungherese. Quella malinconica decadenza era ormai per molti segni annunciata. Il 31 luglio 1914 il messaggio “Ai miei Popoli” dell’Imperatore dopo l’eccidio di Sarajevo, apriva l’ultimo e fatale dramma di una dinastia e di un’epoca.
G***, che nel frattempo si era sposato con una bella donna italiana di Como, dalla quale aveva avuto due figli, viveva ora a Gorizia, facoltoso uomo d’affari. Lo scoppio della guerra ed il probabile intervento dell’Italia lo indussero a trasferirsi con la famiglia a Lubjana ove da anni aveva un ufficio e casa.
Il giorno stesso della morte del vecchio Imperatore venne a sapere da profughi che la villa di Gorizia, con il suo bel parco, era stata distrutta dai bombardamenti. Questo fatto lo colpì molto meno della morte di Francesco Giuseppe. Volle partecipare ai funerali del suo Imperatore, ma le difficoltà del viaggio in treno non gli consentirono di giungere a Vienna per tempo.
Trovò la città avvolta in un’atmosfera cupa, di rassegnata disperazione. Dal suo vecchio albergo di Dorotheengaße si recò a piedi alla Chiesa dei Cappuccini ove due giorni prima era stato posto nell’avello il vecchio Imperatore. Mentre raggiungeva la Chiesa gli vennero a mente alcune premonizioni del finis Austriae che un suo amico e parente, il filosofo M***, morto suicida, gli aveva confidato anni prima. Volle cacciare questi tristi pensieri, mentre rallentava il passo quasi a ritardare il momento della visita che stava per compiere. Giunse alfine alla Chiesa.
G*** non avrebbe potuto certo immaginare che trent’anni dopo Joseph Roth avrebbe concluso il suo romanzo “La cripta dei Cappuccini” quasi con le stesse parole “Voglio visitare il sarcofago del mio Imperatore Francesco Giuseppe” che egli disse - al pari di von Trotta - al frate che lo accoglieva. E “Dio conservi” aggiunse lui pure, prima di far ritorno a Lubjana.
G*** concluse la sua travagliata esistenza a Milano nel 1953, forse ancora pensando ai suoi Absburgo. Del resto questo sentimento, che è fondamentalmente mitteleuropeo, è ancora in non pochi così forte, per cui non è possibile a qualcuno non dirsi ancora absburgico.

Microcosmi, certo si penserà, ma, per dirla con Claudio Magris, quanto ricchi di pathos e di rimpianti, inutili quanto struggenti.