Anno 2 - N. 4 / 2003


EOS:CHI ERA COSTEI ?

La dea rappresenta la prima luce del giorno ed è perciò una deità bella e benefica

Memnone, il figlio caduto per mano di Achille, è pianto disperatamente dalla Dea: le lacrime della madre per sempre saranno la rugiada mattutina

di Giulio Cesare Maggi




Qualcuno dei nostri venticinque lettori (scusateci fin d’ora per l’accostamento manzoniano, del tutto casuale, che magari vi sembrerà irriverente o presuntuoso) si è forse posto la domanda: ma Eos, chi era costei? Come nasce?
Curiosità più che legittima per chi voglia, come noi ci auguriamo, seguirci per qualche anno in questo ambizioso, e forse immodesto (il tempo parlerà) tentativo di tenere in piedi questa Rivista che ha la pretesa di essere dedicata, come compare in copertina, alla storia delle scienze naturali e umane, cultura e costume. E scusate se è poco!
È questa Eos (‘H?w) la divinità greca che personifica, in una teogonia antropomorfica, l’Aurora.
Tra i corpi ed i fenomeni celesti divinizzati della mitologia classica, subito dopo il Sole (Elios) e la Luna (Selene) compare Eos, l’Aurora, come i primi due figlia di Iperione e di Tea.
Eos rappresenta la prima luce del giorno ed è perciò una deità bella e benefica: essa ha le braccia e le dita rosee, e Omero la chiama ‘H?w rododaktulh (aurora dalle dita di rosa). Ogniqualvolta inizia una giornata del suo eterno epos, di buon mattino lietamente si leva la bella dal suo talamo e indossato un aureo mantello – non per nulla sarà chiamata nella mitologia romana aurora – barda i suoi cavalli Lampo e Fetonte, splendente e scintillante rispettivamente. Dona essa così a Dèi e uomini, spargendo di rose il suo cammino celeste, la prima luce, tenue e dorata, precedendo il carro del Sole che questa luce renderà sfolgorante, persino violenta.
La luce meravigliosa ed inimitabile del Mediterraneo! E questa volta ben si accorda la mitologia con il fenomeno naturale dal quale trae origine.
Dal primo marito, il titano Astreo, poi folgorato da Zeus, ebbe Eos i figli Borea, Zefiro, Euro e Noto, i venti dei quattro punti cardinali, che spirano al primo sorgere dell’alba. Al folgorato consorte Eos, che sola non voleva assolutamente restare, sostituì il bellissimo cacciatore Orione. Neppure questa volta la scelta si rivelò felice: Orione venne ucciso dalle frecce della terribile Artemide, la Diana dei Latini, ma fu almeno assunto in cielo.
Ora la nostra Eos, libera dai vincoli coniugali (non fu però una sua scelta) si incapriccia nel tempo libero del Re dei Troiani Titone, uomo mortale, un brotos, per il quale ottiene da Zeus l’immortalità: ma, incauta, scorda di chiedere al contempo l’eterna giovinezza. Sicché il povero Titone invecchia vicino alla bella ed eternamente giovane consorte: la quale, volubile come tutte le donne nella mitologia, l’estromise dal talamo, dopo aver avuto da lui un figlio bello e valoroso che, allevato dalle Esperidi, diverrà poi Principe degli Etiopi. È questi Memnone, nipote di Priamo, e militerà nel campo troiano, trovandovi la morte per mano di Achille. È pianto disperatamente da Eos il bel figlio caduto: le lacrime della madre per sempre saranno la rugiada mattutina.
Molte le leggende sulla sepoltura di Memnone, dall’Ellesponto alla Siria, all’Egitto, in particolare a Tebe. È noto come una delle due statue colossali raffiguranti il Faraone Amenofi III (XVIII dinastia - XIV sec. a.C.) che si trovano a Tebe, presentando una fessura dovuta ad un terremoto (27 a.C.), emetteva al primo mattino un suono lamentoso, dovuto all’evaporazione dell’umidità notturna ivi condensata. Questo “pianto” fece sì che i Greci, la cui presenza in Egitto era assai numerosa, lo interpretassero poeticamente come il lamento di Memnone, al quale attribuirono anche le statue, così definite “I colossi di Memnone”.
Il fenomeno era ancora presente all’epoca della visita in Egitto dell’Imperatore Adriano (130 d.C.) il quale fece incidere sul colosso in greco la scritta ADRIANW, che ancor oggi vi si legge; nonché una poesia, in dialetto eolico, della poetessa Giulia Balbilla che seguiva il viaggio. Il “lamento” scomparve quando l’Imperatore Settimio Severo fece murare la fessura della statua colossale.
Queste le leggende dedicate ad Eos ed ai suoi infelici amori. Essa non ebbe mai né presso i Greci e neppure presso i Romani un tempio a lei dedicato.
Nella mitologia latina l’Aurora viene detta sorella del Sole e sposa di Titone: neppure in Roma fu tuttavia venerata con questo nome. Per gli Italici lo fu invece la Mater Matuta, antica deità preromana il cui nome ritroviamo nel mane e matutina, da cui il nostro mattutino.
Era per i Romani la Dea della prima luce ed anche quella della nascita, del venire alla luce, termine che si applica anche a coloro, e son la maggioranza, che han ventura di nascere nottetempo: la sua festa era chiamata matralia. Sono coinvolti in questa mitologia la Dea greca Leucothea con il figlio di lei, il Dio romano Portunnus, venerato con Mater Matuta e identificato in Grecia quale Palemone. Era questi l’antichissimo Dio dei “passi” e poi dei porti, perciò divinità marina.
Questo della Mater Matuta è un mito ed un culto sicuramente risalente all’archeomitologia europea del neolitico e dell’età del bronzo, quando la “gran Madre” rappresentava forse l’unica divinità della vita e della morte (giorno/notte), ed in ogni caso era l’espressione della predominanza del matriarcato, sia culturale sia religioso: materia affascinante, il “linguaggio della Dea” è oggetto di un importante contributo di Marja Gimbutas (Vicenza, Neri Pozza, 1977), al quale si rimanda.
A Mater Matuta furono dedicati templi fin dall’antichità più remota, nel Lazio (in Roma al Foro Boario, ma soprattutto a Satricum, l’odierna Ferriere di Conca nell’Agro Pontino) ed in Campania (Capua).
La bella Aurora dalle dita di rosa e dal manto d’oro – dice Felice Ramorino nella sua “Mitologia classica” – fu cantata dai poeti più come fenomeno naturale che come divinità. Ricordiamo qui il virgiliano “Aethere ab alto Aurora in roseis fulgebat lutea bigis” (En. 7, 26) “Dall’alto cielo rifulgeva la bionda Aurora sulla sua rosea biga”. Ed Ovidio (Metam. 2, 112) “Ecce vigil rutilo patefecit ab ortu Purpureas Aurora fores et plena rosarum Atria” (“Ecco dal rosseggiante oriente, la vigile Aurora aprire le purpuree porte e gli atrii ricolmi di rose”).
Ancora nelle Metamorfosi (13, 62) ricorda Ovidio la preghiera rivolta da Aurora a Giove onde potere, in qualche modo, onorare il figlio Memnone morto. Concede Giove che le faville del rogo funebre, ove si consuma la spoglia mortale dell’eroe, si trasformino in uccelli, le Mnemonidi: combattendo tra di loro questi uccelli, ricadono sul cadavere combusto, quale segno di omaggio: “…pias Nune quoque dat lacrimas et toto rorat in orbe” (Anche ora dà pie lacrime e spande rugiada sul mondo tutto).
Non è raro trovare su vasi e su gemme incise la figura di Eos su una quadriga o in atto di bardare i cavalli del Sole o, alata, volare sulla terra spargendo da un vaso rugiada. Anche in quella rappresentazione monumentale che è l’altare di Pergamo dedicato a Giove, che ora, ricostruito, si trova a Berlino, Eos a cavallo precede l’arrivo di Elios.
E lungo sarebbe noverare quanto e come nell’arte di tutti i tempi Eos sia stata e sia presente. Vogliamo solo qui ricordare, di epoca romana, la presenza a Milano della porta volta ad oriente, la vecchia Porta Orientale chiamata poi popolarmente Porta Renza (da Aurentia), pare caratterizzata da un sole in metallo dorato, il cui nome, come si vede, nulla ha a che fare, come credono spesso i milanesi, con il buon Renzo Tramaglino!
Per parte nostra ci lusinghiamo di dimostrare ai nostri Lettori migliore fedeltà di quanto la mitica Eos – per motivi che lei sola conosce – abbia riservato ai suoi amori: mentre speriamo che i nostri Lettori, per parte loro, ne abbiano altrettanta nei riguardi della Rivista, alla quale, dopo l’aurora, auguriamo una radiosa giornata.


Commento alle immagini: Aurora (1621), Guercino, Roma, Casino Ludovisi - Eos alata sparge la rugiada mattutina