Anno 2 - N. 4 / 2003


IL CONCETTO DI TOLLERANZAIN SPINOZA: UN PARADIGMA ETICO PER SEMPRE

“Il compito dell’uomo non è nè giudicare, nè tantomeno condannare, ma conoscere”

di Giulio Cesare Maggi




Nel senso originale, ed ancor oggi ritenuto più proprio dai filosofi, con il termine di tolleranza si intende la mancata repressione, con violenza fisica o con altri mezzi, di opinioni ritenute false o di comportamenti ritenuti dannosi o comunque sbagliati o difformi da un pensiero prevalente. La tolleranza riguarda perciò, in primo luogo, innanzitutto l’autorità politica e presuppone che essa faccia proprio un sistema di credenze e di giudizi di valore negativi nei confronti dei comportamenti e delle opinioni “tollerate”.
Oggi tuttavia è diffuso, accanto a questo, un altro senso del termine, per cui l’autorità politica o anche un singolo individuo son detti tolleranti quando si astengono dal penalizzare, anche soltanto con un giudizio di merito sfavorevole, opinioni o comportamenti difformi dai propri.
Questa seconda accezione del termine deriva dalla prima attraverso il dibattito sulla tolleranza e l’evoluzione delle istituzioni sociali e politiche, almeno in molti Paesi: ciò ha consentito alla realizzazione di forme via via diverse di tolleranza. L’uso iniziale del concetto, al quale si connette il primo senso del termine, è legato al dibattito sulla repressione del dissenso religioso nell’Europa della Riforma protestante. Il problema si pose cioè all’inizio in forma esplicita come problema della tolleranza religiosa.
Esso tuttavia era nato assai prima. Nel mondo greco l’accusa di ateismo aveva condotto alle persecuzioni di varie personalità: ricordiamo per tutti Socrate del quale Platone ne “L’Apologia di Socrate” riporta l’autodifesa, rivelatasi del tutto inutile. Nel mondo romano l’intolleranza e la persecuzione dei dissenzienti religiosi fu spesso motivata politicamente per il nesso che veniva instaurato tra la divinità dell’Imperatore ed il riconoscimento della sua autorità politica. Fin da allora i dissenzienti si difesero assai spesso con un argomento che sarà poi usato anche nell’era moderna, per sostenere la tolleranza: il dissenso in tema di religione non comporta affatto né corruzione morale né antagonismo politico. Queste argomentazioni, usate dai primi Cristiani, i quali nell’inchinarsi all’Imperatore mentalmente recitavano il celebre “non tibi sed Petro”, sono ricordate da Paolo in Atti (24, 11-16).
Le sanzioni anticristiane di Diocleziano furono sostanzialmente inefficaci ed il suo successore Galerio dovette emanare nel 311 a Sardica un Editto di Tolleranza che, pur ricordando l’intenzione dioclezianea di ripristinare la tradizione religiosa romana, ne ammise il fallimento; perciò ora i Cristiani dovevano ricevere il diritto all’esistenza e pregare il loro Dio per l’Imperatore, lo Stato ed il loro benessere. Con questo storico decreto il contrasto con lo stato romano ebbe sostanzialmente fine: ciò non impedì al Cristianesimo, una volta diventato da “religio licita” religione di Stato, di perseguitare i dissenzienti (dai Cátari fino a tempi più recenti, X e XI secolo, Valdesi ed Albigesi in Francia, nonché i Cátari di Concorezzo e Desio in Italia) contravvenendo così alla sua essenza, nonché alla lettera ed allo spirito dell’Editto di Tolleranza di Galerio ed agli atti ed eventi successivi.
Una prova di grande tolleranza, non solo religiosa, fu data sorprendentemente dall’Islam in occasione della riconquista da parte araba di Gerusalemme (1187) ad opera del principe curdo il Sultano Saladino. Gli scrittori arabi delle Crociate dedicano a questo personaggio molte pagine che ne celebrano la pietas, il senso di giustizia, di umanità ed indulgenza. Di lui sono ricordate anche l’assidua pratica della virtù ed i rapporti molto cordiali con Cristiani ed Ebrei. Furono questi sentimenti molto mal ricambiati nel corso della III Crociata che vide il massacro dei Musulmani. Lo spirito di tolleranza di Saladino fu esaltato successivamente da molti, in particolare da Hegel.
Per contro fino alla Riforma la rivendicazione della tolleranza religiosa non ebbe mai le dimensioni e la visibilità con cui essa si presentò nei secoli XVI e XVII. La proliferazione di confessioni religiose che precedette e seguì la Riforma, fece porre il problema della tolleranza e, ovviamente, dell’intolleranza quale problema politico; le comunità perseguitate e molti pensatori indipendenti rivendicarono la tolleranza religiosa con argomenti che ancor oggi sono impiegati in questo ed in altri contesti.
Un argomento spesso invocato fu quello etico, nato in ambiente umanistico, in particolare con Erasmo da Rotterdam, l’uomo pacifico e conciliatore che forse per questo soccombette nello scontro - che doveva e poteva essere un incontro - con Martin Lutero.
Grande lottatore per l’indipendenza, Erasmo ha lasciato e lascia un’eredità morale di alto momento: ricorda Stefano Zweig nel suo “Erasmo da Rotterdam” che per l’Umanista la ragione suprema è la giustizia, al contrario del coevo Macchiavelli che considera tale la potenza.
Ma nel campo dello spirito tutte le antitesi hanno posto, anche quelle che non saranno mai vittoriose nella realtà. Un’idea che non si attua non è per questo falsa o sconfitta: è un trionfo della ragione giusta e chiaroveggente che solo può utilmente realizzarsi se non in un clima di ampia e serena tolleranza. Dopo Erasmo il suo allievo Montaigne parlerà di bontà intelligente.
Le argomentazioni di Erasmo furono in sostanza riprese quasi due secoli dopo da Locke soprattutto nella prima “Epistola de tolerantia” (1689): la persecuzione è violenza e si oppone pertanto alla carità cristiana, la tolleranza è un corollario del dovere della fraternità.
La seconda metà del Seicento fu senza dubbio il periodo durante il quale prese corpo l’argomentazione “latitudinaria” di gruppi inglesi, i quali sostenevano che le divergenze religiose che motivavano le persecuzioni riguardavano solo punti oscuri e di dettaglio controverso della dottrina cristiana, mentre le dottrine indispensabili e sicuramente attestate sono di fatto condivise da tutte le Chiese, sicché la persecuzione è insensata e la tolleranza deve essere un’attitudine innanzitutto logica.
Ma accanto a questi argomenti etici altri ne esistono, di ordine politico, che sostengono la tolleranza in quanto bene dello Stato. Secondo Locke il dissenso religioso - di per sé innocuo - si trasforma in dissenso politico. Essendo il soggetto delle scelte religiose la coscienza individuale, la violenza repressiva verso questa è inefficace oltre che illegittima. Questo concetto fu ripreso da Spinoza nel “Tractatus Theologicus Politicus” (1670) e ribadito da Locke nella terza Lettera sulla Tolleranza; in quest’ultima Locke sostiene che in campo religioso è possibile solo la convinzione soggettiva e perciò la verità, in nome della quale si perseguita il dissenso, è sempre la verità di qualcuno. E così pure l’evidenza con cui il persecutore ritiene che essa si manifesti non può che essere soggettiva.
A questo punto introduciamo la figura di Spinoza come uomo e come filosofo, tralasciando quanto di leggendario e romantico “di maniera” circonda la sua figura.
Nato nel 1632 da famiglia benestante di ebrei portoghesi, trasferitisi nella libera Olanda per fuggire l’Inquisizione, fu uomo di cultura vasta e profonda: conosceva difatti Antico e Nuovo Testamento, il Talmud, la filosofia ebraica ed araba del Medioevo e quella del Rinascimento, il pensiero cristiano, la scolastica, le scienze naturali, le opere di Cartesio, Bacone, Hobbes, Bruno, Leibnitz, nonché il pensiero teologico, politico e scientifico della propria travagliata epoca.
Studioso di ottica - ebbe corrispondenza con il celebre fisico Christiaan Huygens – visse, come fu detto, “modestamente in una privacy senza superbia ma non fuggì dal mondo”; restò sereno pur nella lacerante vita politica del suo Paese, dando appoggio morale ai fratelli de Witt, fautori di democrazia, che sarebbero poi stati massacrati nel 1672 dal d’Orange: in essi egli vedeva i difensori della tolleranza religiosa e filosofica, nonché dell’autonomia dello Stato dalle sette e dalle Chiese.
Spinoza fu trattenuto in quella triste occasione dal pittore van der Spyk, presso il quale alloggiava, dal recarsi sul luogo dell’assassinio ed esporvi un cartello con la scritta “ULTIMI BARBARORUM”: gli fu così evitata una morte sicura.
Questo filosofo, ammalato di tisi, amante soprattutto della quiete, della tolleranza, della sicurezza protetta dal diritto e dalla gioia serena, sa, dalla sua filosofia, che una passione non può essere vinta che da una passione più forte: ma il suo modello di uomo è quello di un essere che si lascia guidare soprattutto dalla ragione, e ragionare significa intelligere.
Ora il “comprendere” spinoziano non è il silenzio o il deserto delle passioni, ma piuttosto un tentativo di purificarle per rendere la mente più limpida e meno soggetta a quegli affetti che sono pur sempre la trama della nostra vita psichica.
Nel 1670 esce ad Amsterdam, anonimo e con falsa indicazione editoriale, il suo celeberrimo “Tractatus theologicus politicus”: e questo trattato è soprattutto animato dalla “libertà di filosofare e ricercare”, libertà che ad ogni costo Spinoza vuole salvaguardare dalle prevaricazioni dell’autorità. Sembra, per certi versi, l’inizio della Lettera a Meneceo di Epicuro.
Nella prefazione del Tractatus vi sono chiare allusioni alla politica tollerante di Jan de Witt, capo del partito repubblicano contrario ai d’Orange, amico e protettore di Baruch Spinoza, il quale, pur vivendo in una società violenta e dominata dall’intolleranza, è riuscito nel suo pensiero filosofico a considerare le cose sub specie aeternitatis raggiungendo la quiete dell’animo.
La libertas philosophandi et discendi, diritto fondamentale dell’Uomo, era altresì l’aspirazione, ancor oggi e per sempre attuale, ad una libertà non ancora raggiunta nella gran parte del mondo: pensiero questo attualissimo, che allora si congiungeva alla filosofia naturalistica italiana di un Telesio, un Bruno, un Campanella, non meno di Cartesio. Si comprende così la passione di Spinoza per il napoletano rivoluzionario Masaniello, nelle cui vesti popolari il filosofo, ottimo disegnatore, si autoritrasse.

Uomo estremamente raffinato e colto Spinoza nella sua filosofia presenta un tratto intrepido, non ponendosi al riparo di qualsiasi credo positivo, da lui considerati tutti, ebraismo e cristianesimo delle varie confessioni, carichi di aspetti superstiziosi. Indubitabili gli influssi cartesiani e quelli dei filosofi naturalisti italiani, ai quali si dovrebbero aggiungere Macchiavelli, Hobbes, Bacone e Grozio: ma, si è detto giustamente, Spinoza è soprattutto, come Erasmo, homo per se.
Nel suo sigillo compare una rosa e sotto la scritta Caute: vien da pensare alle spine del gambo della rosa, se questa non sia attentamente maneggiata, ma non certo per paura, dato che Spinoza è uomo critico e scientificamente coraggioso.
In un’epoca tragica che ha riferimenti drammatici, dall’assassinio dei de Witt e di Carlo I, ai processi dell’Inquisizione, alle guerre tra Olanda e Inghilterra, infinite sono le forme di intolleranza, quella stessa che ha portato gli “eretici” al rogo: pensiamo al filosofo Giordano Bruno, all’anatomista Miguel Servet.
Lo stesso pensiero spinoziano poteva apparire sospetto, in quanto pervaso di etos razionale e scientifico. Il Deus sine mundo di Spinoza si identifica appunto con quell’ordine naturale che viene indagato dalla filosofia e dalla scienza in modo assolutamente autonomo.
Uomo del suo tempo, Spinoza è tuttavia incline a raccogliersi in sé stesso: egli raccomanda la mitezza, la cordialità, una gioia semplice e serena nei rapporti con sé e con gli altri, e in tal modo si comporta egli stesso.
Condizioni di ambiente politico e sociale certamente complesse e contraddittorie quelle della sua epoca. Vorremmo qui far riferimento a proposito dell’opposizione tra lo spirito calvinista e quello erasmiano: in questa tensione si colloca storicamente il significato della filosofia spinoziana: “un umanesimo sinceramente cristiano e moderatamente classicista formò la trama di questa cultura” (Huinzinga).
Spinoza ebbe una formazione umanistica già prima della sua scomunica dall’ortodossia ebraica e, come già si è detto, assai vasta anche nel campo scientifico, basata sul naturalismo di Lucrezio: è evidente l’aggancio con la filosofia epicurea del “De rerum natura” ed il naturalismo rinascimentale italiano. Ed è in questo approccio filosofico che si formò intorno a lui una comunità che vedeva la divinità, come consideravano Epicuro e Lucrezio, lieta, serena e soprattutto tollerante, sublime serenità e puro pensiero. Comunque lo spinozismo non può, se non artatamente, dividersi dalla corrente etico-religiosa e politica in cui è nato e si è sviluppato.
La religiosità di Spinoza è certa e ciò emerge dal Trattato ma è, in ogni caso, in netto contrasto con il fanatismo, la magia e la superstizione.
Nella sua famosa Epistola XLIII Spinoza difende con passione una religione universale che conceda a ciascuno la libertà più ampia di professare le proprie convinzioni, purché l’uomo ami Dio come sommo bene: sempre deve esserci però la libertas philosophandi.
È questo un punto che portò fama a Spinoza, al punto che l’elettore palatino Principe Carlo Ludovico gli offrì, invano, la cattedra di Filosofia all’Università di Heidelberg.
Nel suo Breve Trattato Spinoza delinea per amici e discepoli i punti essenziali della sua visione filosofica: uno dei principi costanti dell’etos umano spinoziano è quello di offrire ad ognuno quel tanto di verità che egli può sopportare, senza imporre mai il proprio pensiero. L’etica di Spinoza è un’etica di tolleranza che rifiuta ogni dogmatismo e ogni atteggiamento fanatico. Ma questa tolleranza non dipende dal buon cuore o dalla mitezza erasmiana del nostro Filosofo. La vera fonte di questo atteggiamento è una visione filosofica che ininterrottamente è consapevole della pluralità dei livelli di conoscenza, che pertanto si esplica per gradus.
Già nel Breve Trattato emerge quella antinomia di fondo che attraversa tutto il pensiero spinoziano, antinomia tra passione e ragione, tra desiderio e amore intellettuale: e questo tratto non è una debolezza dello spinozismo quanto piuttosto un suo carattere strutturale. Ribadisce frequentemente Spinoza che la filosofia è un grande farmaco contro le passioni: ed anche qui come dimenticare o ignorare il Tetrapharmacon della dottrina epicurea, giunta a Spinoza attraverso Lucrezio e Seneca ?
Anche se la teologia in Spinoza è largamente presente, essa è una teologia “naturale”, a misura d’uomo, comprende e coinvolge l’uomo, che con amore supera l’odio e l’errore, le opinioni vaghe ed il “sentito dire”: seppure il Nostro resta un razionalista rigoroso che cerca una totalità unificata, e non si può non sottolineare qui il suo naturalismo e la sua “terrestrità”, quell’elemento per cui ci si ricollega a Goethe e persino al Nietzsche di ”Also sprach Zarathustra”. E ciò senza tuttavia emarginare dallo spinozismo i suoi innegabili motivi metafisici e religiosi.
La modernità della filosofia di Spinoza ha largamente influenzato il concetto di “Humanität” di pensatori quali Herder e anche Lessing e Goethe, Fiche, Schopenhauer. E, secondo Cantoni, anche in Nietzsche, Marx e Freud ritroviamo la presenza di Spinoza che basandosi su un naturalismo che respinge le comuni nozioni di bene e di male, fa leva su ciò che il Nostro chiama “cupiditas” (prelude forse alla libido di Freud ?).
Spinoza sembra collocarsi come filosofo, pur con i suoi innegabili riferimenti storici, fuori dal tempo, con il significato di una gnosi sapienzale finalizzata all’etica.
La proposizione XLV del Libro quarto dell’Etica, così recita “odium numquam potest esse bonum”: e lo scolio che segue dice “nota che qui ed in seguito intendo per odio solo quello verso gli uomini”.
E nel Trattato il capitolo XX così titola: “In una libera comunità politica ciascuno deve avere libertà di pensiero e di espressione”.
È questo il grande ed originale messaggio che in tema di tolleranza ci lascia Spinoza: messaggio che per certo è soprattutto di natura etica. La sua ricaduta, quale espressione di convivenza pacifica, non solo è applicabile in tutti i tempi ed in tutti i luoghi, ma ne costituisce un corollario sia pure importante, e non solo questo.
E qui non può non venire alla mente il volteriano “Traité sur la tolérance à l’occasion de la mort de Jean Calas” (1763) di cui ricordo la traduzione in italiano di Palmiro Togliatti (1949) con una lucida, ancorché di parte, prefazione.
Come norma universale la tolleranza è incompatibile con scelte relativistiche o assolutistiche e pertanto non può venire accolto un concetto di tolleranza legato ad un orientamento agnostico o blandamente relativistico: sarebbe difatti disatteso il principio del dialogos, inteso come dovere assoluto di ascoltare e comprendere gli altri e come diritto di essere ascoltato e compreso.
Pertanto, e questo è un punto fondamentale, il rispetto della pluralità di opinioni non può ridursi a mera opinione, se non sotto pena di perdere valore di norma universale: come tale la tolleranza è incompatibile, lo si ripete, con scelte agnostiche e relativistiche ma, d’altra parte, in quanto riconoscimento del pluralismo, è incompatibile con rivendicazioni di certezze incontrovertibili.
Alla tolleranza è stata anche attribuita (Pseudo-Dionigi Areopagita) una valenza gnoseologica, cioè di svelamento graduale e parziale della verità, e ciò sembra molto pertinente al concetto di apprendimento per gradus senza che mai l’Uomo possa attingere al vero assoluto. In questo senso anche il principio di tolleranza non può avere una applicazione acritica ed indiscriminata ed in ogni caso l’approccio etico è superiore a quello teorico, il primo essendo oltretutto di intuizione immediata, e in accordo con il postulato kantiano della persona umana come fine, per cui ogni sua violazione costituisce una violazione dell’Uomo: con l’ovvia accettazione di una prassi che non può essere senza limiti comportamentali da un lato e con la promozione di un intervento pedagogico dall’altra, nel senso di educazione alla libertà.
E anche nel mondo contemporaneo il principio della tolleranza richiede anche ferma opposizione al fanatismo, sia religioso sia politico, se si vuole - come si deve - che esso resti un paradigma etico irrinunciabile per sempre.