Anno 2 - N. 5 / 2003


LA FIGURA DEL MEDICO CONDOTTO

UMANITÀ DELLA MEDICINA DI FINE OTTOCENTO

1884 “scindere la questione igienica da quella economica vale quanto a rinunciare a risolvere l’una e l’altra tanto sono compenetrate nei rapporti di causa-effetto”

di Dino Felisati



Treno ospedale - Gino Severini (1883-1866) - Stedeluk Museum, Amsterdam


Dopo l’unificazione del Paese, due partiti occupavano la scena politica: l’aristocratico-clericale moderato che aveva la supremazia, e il repubblicano-democratico guidato dal medico Giovanni Falleroni. I medici, soprattutto igienisti, erano largamente rappresentati nel Parlamento ove si fecero promotori di leggi riguardanti i temi della salute e dell’igiene mentale, dell’epidemiologia e della prevenzione, della lotta alla miseria e all’analfabetismo, del risanamento igienico delle case e delle città, della patologia da lavoro, in una parola affrontando i temi che noi oggi consideriamo specifici alla “qualità della vita”, a quel tempo fortemente compromessa a livello di classi popolari. Ne furono protagonisti Guido Baccelli, Agostino Bertani, Stanislao Cannizzaro, Antonio Cardarelli, Nicola Badaloni, Joacob Moleschott e molti altri. Essi parteciparono a quella stagione di innovazione delle scienze mediche e medico-sociali che è stata definita come “utopia igienistica”.

In quel tempo i contadini della Bassa Padana non avevano più come punti di riferimento soltanto il padrone e il prete, ma anche il maestro elementare e il medico condotto, che assunsero la funzione dell’agitatore socialista presente in altri paesi. Il medico, in particolare, che viveva quotidianamente a contatto con la miseria e la malattia, e che ne verificava la reciproca influenza nel causare deterioramento del tessuto sociale, si sentiva investito di un compito che solo apparentemente esulava dalle sue funzioni sanitarie. Egli percepiva nettamente la necessità – in nome di quella stessa scienza che aveva dato una nuova impronta al suo corso di studi universitari - di farsi paladino di un’azione non soltanto sindacale, ma anche politica, finalizzata a redimere le masse amorfe dei contadini dallo stato di soggezione al potere costituito in cui vivevano e avviarle verso migliori condizioni di esistenza.

situazione socio-economica

Nella seconda metà dell’Ottocento nasceva la prima borghesia industriale, rappresentata dagli Agnelli, Pirelli, Breda, Bassetti, Mondadori…, per citare le famiglie artefici delle più note attività industriali, mentre si andava costituendo in alcune città del Nord Italia un tessuto di fabbriche che, richiamando mano d’opera dalla campagna e dai centri minori, dava avvio al fenomeno della urbanizzazione ed alla nascita del proletariato urbano.

Nelle campagne si consolidava la borghesia terriera, che da un secolo si stava sostituendo al patriziato nella proprietà della terra, dando avvio alla grande azienda agricola nella quale la terra veniva coltivata non più “in economia”, ma a gestione intensiva di tipo capitalistico. La proprietà, per ottenere la massimizzazione dei profitti, riduceva i salari, investiva nella bonifica, inseriva nuove colture: canapa, barbabietola da zucchero e soprattutto riso. La popolazione delle campagne subì un incremento dovuto in parte al richiamo di mano d’opera, conseguente ai nuovi criteri di conduzione della terra, in parte alla riduzione della mortalità (passata dal 1871 al 1900 dal 31 per mille al 18 per mille).

A partire dal 1880 l’agricoltura europea andò incontro ad una grave crisi; tra le cause: l’apertura del Canale di Suez e la costruzione delle nuove navi con scafo in ferro e motore a vapore che crearono le condizioni per un rapido sviluppo delle comunicazioni e dei trasporti, con notevole vantaggio per gli scambi commerciali, ma con la conseguente caduta dei prezzi dei nostri cereali e del riso in particolare, che veniva importato dall’Oriente a prezzi assolutamente concorrenziali, anche se di qualità meno pregiata del nostro. In Francia, fin dal 1870, la fillossera aveva distrutto i vigneti del Midi, con danni enormi per la viticoltura. Nella Pianura Padana la coltura del riso, con i metodi di quel tempo, determinò presto la caduta di produttività per esaurimento del suolo, con la restituzione del terreno alla palude e incremento della malaria. La crisi agraria durò circa 20 anni, cioè fino a fine secolo.

In Polesine si era venuto formando un proletariato agricolo fatto di braccianti, avventizi ecc. occupato saltuariamente e spesso disoccupato. La maggioranza della popolazione viveva in case a piano terra, alloggiando spesso 6-7 persone per stanze di circa 30 metri cubi, del tutto sprovviste di servizi igienici. Nel Basso Polesine le case erano di canna, col focolaio al centro, e un buco nel soffitto per far uscire il fumo che impregnava di sé tutto l’ambiente; uomini e donne, bambini e vecchi vivevano in stato di totale promiscuità, spesso condividendo il poco spazio disponibile con gli animali domestici. La popolazione era per gran parte analfabeta.

Si deve aggiungere che le terre erano spesso alluvionate per lo straripamento dei grandi fiumi con conseguente formazione di paludi e stagni che contribuivano ad aumentare il rischio malaria. Agostino Bertani mise bene in luce questa situazione nella sua inchiesta sulle “Condizioni sanitarie dei lavoratori della terra in Italia” presentata al Parlamento nel 1885.

Dal 1888 fino al 1894-95 ebbe luogo una forte emigrazione verso le Americhe, in particolare verso il Brasile, che aveva bisogno di mano d’opera per coltivare le grandi piantagioni di caffè dove non affluivano più gli schiavi negri importati dall’Africa. Ma la crisi di sovrapproduzione del caffè del 1896 diede luogo ad un parziale rientro dei nostri emigrati.

Il clima politico di fine secolo fu tormentato: in Polesine nel 1884 scoppiò la rabbia contadina manifestandosi con il primo grande sciopero dei braccianti agricoli detto “La boje”. A Milano, nel 1898, i cannoni di Bava Beccaris spararono sulla folla inferocita per il rincaro del prezzo del pane, mentre nelle campagne dell’alto Milanese il disagio dei contadini, derivato dai contratti capestro imposti dal padronato terriero, sfociò in forme di protesta e di lotta spesso violenta. Nacquero le prime forme organizzate di associazioni di difesa: Leghe di resistenza, Leghe per la democrazia, Camere del lavoro. Nel 1892 a Genova fu fondato il Partito Socialista Italiano che si staccò dalla componente anarchica ed assunse connotazione di partito democratico: era il partito di Turati, Treves, Modigliani ecc.

Situazione socio-sanitaria

Nelle condizioni socio-economiche descritte assumevano toni drammatici, per la loro estensione e gravità, le situazioni di carenza alimentare e di scarsa igiene delle abitazioni, degli alimenti e degli ambienti di lavoro, così che il contagio infettivo ne era favorito e la patologia spaziava dalle malattie infettive (tifo, polmonite, tubercolosi, difterite, vaiolo, colera e infezioni gastro-intestinali, sifilide), alle malattie da carenza (pellagra, rachitismo), alle malattie ambientali (malaria e malattia reumatica).
La seconda metà dell’800 era anche l’epoca delle grandi scoperte batteriologiche di L. Pasteur e R. Koch, della nascita dell’igiene moderna, delle prime applicazioni del concetto di prevenzione, dei primi tentativi di impostare una politica sanitaria a livello nazionale. Il nuovo Stato unitario adottò la “Legge Rattazzi” del 1859, promulgata negli Stati Sardi che nei fatti enfatizzava le funzioni amministrative rispetto a quelle tecnico-sanitarie. Fecero seguito alcune proposte presentate al Parlamento che, pur non arrivando mai alla loro approvazione definitiva, testimoniano il bisogno di avviare a soluzione i gravi problemi legati alla scadente situazione sanitaria del Paese. La prima proposta fu di Giovanni Lanza, medico e capo del governo, datata 1870; la seconda di Giovanni Nicotera ministro dell’Interno nel governo di Agostino Depretis, governo della sinistra, del 1875, la terza di Agostino Bertani medico e parlamentare, di cui si è già detto, che portava la data del 1884. Scriveva Bertani: “Scindere la questione igienica da quella economica vale quanto a rinunciare a risolvere l’una e l’altra tanto sono compenetrate nei rapporti di causa-effetto”.

Tutte queste proposte non arrivarono alla approvazione del Parlamento per la caduta dei governi che le avevano sostenute. Fu con il governo di Francesco Crispi, succeduto a quello di Depretis, che venne approvata nel 1888 la legge “Sulla tutela dell’igiene e della salute pubblica”, denominata Crispi-Pagliani dal nome dei suoi promotori (Luigi Pagliani era titolare della Cattedra di Igiene dell’Università di Torino). Nella legge vennero recepiti i principi della nuova filosofia sanitaria, maturata alla luce delle grandi scoperte scientifiche di fine secolo. La nuova legge impegnava lo Stato e le sue istituzioni nella tutela dell’igiene e della sanità pubblica, ma teneva anche conto dello stato di indigenza di larghi strati della popolazione. Veniva istituita la Direzione generale di Sanità e venivano create le figure del Medico Provinciale e dell’Ufficiale Sanitario. La difesa della salute era considerata un bene sociale e nazionale, oltre che individuale. In conseguenza del dettato legislativo furono avviate vaste opere di risanamento ambientale con la bonifica di zone paludose e la malaria venne combattuta anche con la distribuzione gratuita del chinino. Ebbe inizio una complessa operazione di prevenzione e cura della tubercolosi, pericolo incombente in una società in fase di industrializzazione. Per combattere la pellagra vennero istituite le locande sanitarie e le cucine economiche per pellagrosi. I rapporti tra questioni sociali e medicina diedero avvio al primo abbozzo di Medicina Sociale che cominciò ad interessarsi di patologia da lavoro dei campi e delle nascenti industrie. Nel 1910 Luigi Devoto, Professore di Patologia Medica all’Università di Pavia, fondò a Milano la prima Clinica delle malattie del Lavoro.

Il medico condotto

La patologia da lavoro si accompagnava alla più vasta patologia da miseria, l’una e l’altra impegnavano il medico, e soprattutto il medico condotto, che viveva in mezzo ad una umanità sofferente.

Chi era il medico condotto? Da dove veniva? La figura del medico moderno nasceva nel Duecento con la fondazione delle Università. Inizialmente si trattava di un medico formatosi sui testi di Ippocrate e di Galeno; la sua attività era praticata da persone di elevato ceto sociale ed era considerata nobile (medico di orina), diversamente da quella del chirurgo, che non studiava nell’Università e proveniva dai ranghi dei norcini e dei barbieri, e che era ritenuta ignobile (medico di piaga). I medici tendevano a stabilirsi nelle città ove curavano malati facoltosi e si facevano pagare profumatamente, ma in occasione delle grandi pestilenze, per esempio quella del Trecento di cui scrive Boccaccio o quella del Seicento trattata dal Manzoni, abbandonavano le città invece di prestare soccorso ai malati, squalificandosi agli occhi dei cittadini. Nel Rinascimento ebbe grande rinomanza la Scuola di Medicina Padovana con Andrea Vesalio, Realdo Colombo, Gabriele Falloppio, Fabrizio d’Acquapendente, ma si trattò di un fatto di cultura e di progresso scientifico che non investì la clinica, né tanto meno la medicina pratica. La figura del medico tornò ad assumere valore nel Settecento e più ancora nell’Ottocento, quando medicina e chirurgia si riunirono nella figura del medico-chirurgo il quale, fornito delle nuove conoscenze e strumenti derivati dalla ricerca scientifico-tecnologica, potè esercitare la professione con sufficiente decoro. Ma, a partire dal Rinascimento, a conferire dignità alla figura del medico furono i medici di campagna, cosiddetti “dottori marginali” che esercitavano nei villaggi e nelle città, la cui clientela erano i poveri. Già all’epoca dei Comuni venivano presi a servizio (cioè “condotti”) medici per curare i poveri e i miserabili: essi sarebbero diventati i medici condotti dell’epoca di cui stiamo trattando: una istituzione tipicamente italiana.

Il medico condotto di fine Ottocento disponeva di ben pochi strumenti farmacologici ed era consapevole che le vere cause della patologia prevalente andavano ricercate nelle misere condizioni di vita delle classi più povere. Veniva alla ribalta una figura di medico che era insieme uomo di scienza e di carità: là dove non poteva arrivare con i suoi scarsi mezzi terapeutici, portava il conforto della sua presenza, del suo aiuto morale e talvolta materiale.
Questi medici, particolarmente impegnati sul piano sociale, vennero chiamati “i preti rossi”. Nella loro lotta alla malattia, si confrontarono e spesso si integrarono con il prete per sopperire con l’umana assistenza, e il conforto dell’anima, alla carenza dei mezzi curativi. Agostino Bertani, medico e deputato radicale li definì “angeli di civiltà e di progresso”.

Una di queste figure fu quella di Nicola Badaloni, medico condotto a Trecenta nel Polesine, autore di pregevoli studi sulla pellagra (1884), commissionatigli dalla Deputa- zione Provinciale di Rovigo. Oltre che libero docente di Patologia Speciale e Clinica Medica Propedeutica a Perugia e successivamente professore pareggiato di Patologia Speciale Medica a Napoli, egli fu anche deputato in Parlamento per la corrente riformista del Partito Socialista. Badaloni fu il tipico medico che faceva della sua professione una missione, volta alla redenzione sociale, morale e materiale delle grandi masse costituenti il bracciantato agricolo. Egli stimolò la nascita delle società operaie di mutuo soccorso, delle cooperative di braccianti agricoli per l’assunzione di lavori pubblici e di movimenti di terra; promosse l’associazionismo necessario per dar vita alle prime leghe contadine di resistenza e alle prime cooperative di consumo; insegnò oltre che la solidarietà, la necessità della partecipazione alla vita sociale e il bisogno di riscossa dalla rassegnazione, per la conquista del diritto alla vita. Si impegnò nella lotta all’analfabetismo delle masse contadine per farle diventare strumento attivo di progresso sociale, nella convinzione che non potesse essere la violenza, ma il superamento dello stato di soggezione che derivava dall’ignoranza a portare al miglioramento delle condizioni di vita dei diseredati. La classe lavoratrice doveva essere resa cosciente della sua forza e del suo valore.

Accanto a Badaloni ricordiamo in Polesine Galileo Beghi, a Milano Paolo Pini e Anna Kuliscioff che visitava gratuitamente i poveri sparsi nei vicoli della città… Alla schiera di medici umanitari apparteneva anche Annibale Preto, il fondatore dell’Ospedale “E. Bassini” per la cura degli erniosi poveri.

Questi medici spesero la loro esistenza per dare valore alla vita del miserabile che conta non perché sia un suddito del Re, né perché sia un elemento utile dell’ingranaggio della produzione, ma perché rappresenta un frammento di umanità. Quel medico fu attento alle cause economiche e ambientali delle malattie (miseria, mancanza di igiene, ambiente malsano) e non si limitò a dare cura e conforto al malato, ma lo aiutò ad uscire dal suo stato di miseria materiale e morale attraverso un impegno sociale e politico. Diceva Augusto Murri “Medico vero non può essere chi non sente imperioso nel cuore l’amore per gli uomini”.
Ad animare il medico fu l’ispirazione di intendere il proprio lavoro come apostolato e missione sociale, ispirazione filantropica e umanitaria che venne ad esaurirsi qualche decina d’anni dopo, con lo scoppio della prima guerra mondiale. Dopo venne il Fascismo e il problema sanitario passò in mano allo Stato.

Fine Ottocento è stato forse il momento di maggior splendore della professione medica: il tempo dei medici condotti che, pur provenendo da famiglia borghese, esercitarono la professione al servizio dei più deboli e dei diseredati, attraverso un rapporto individuale permeato di grande umanità, e contribuirono a migliorare le condizioni di vita delle masse, facendosene guida politica e operando in Parlamento per sostenerne i diritti