Anno 3 - N. 7 / 2004


IL DUALISMO CARTESIANO

IL DOLORE E LA COSCIENZA

Qualsiasi evento, fisico o mentale, che turbi la capacità integrativa della coscienza altera la percezione sensoriale e quindi anche la percezione del dolore

di Mario Tiengo



Chirurgo (1555)

Sanders Hermessen (Hemishem, 1500 c. - Haarlem, 1566) Madrid, Museo del Padro.

Era credenza, a quell'epoca, che a provocare la pazzia fosse una pietra indovata nel cervello. Il "chirurgo", dopo l'incisione, esibiva una formazione calcarea, simulando di averla estratta dal cervello del malato.

Quando un agente, fisico o chimico, capace di provocare danno ai tessuti viene a contatto con il nocicettore, nel corpo cellulare si compiono cambiamenti chimico-fisici reversibili (depolarizzazione) che immediatamente si propagano come un’onda lungo tutta la fibra nervosa, sino alla sua entrata nel midollo spinale: è questo il primo segnale o messaggio “nocicettivo”. Raggiunta la cellula di origine del secondo neurone, questo segnale risale le fibre spino-talamiche fino a raggiungere la stazione talamica (nuclei talamici postero-ventro-laterali e mediali). Da questi nuclei il segnale si porta alle tre grandi aree cerebrali della coscienza: corteccia sensoriale, corteccia cognitiva, nuclei affettivi ed emotivi (giro cingolato, ippocampo, amigdala). La nocicezione viene allora resa cosciente e percepita come dolore. Potremmo così suggerire un’altra definizione del dolore: il dolore è la presa di coscienza della nocicezione (1).
I livelli di eccitabilità della coscienza sono modulabili. I neurofisiologi che per primi descrissero i sistemi endogeni di modulazione della coscienza furono, negli anni ‘40, Moruzzi e Magoun. Essi scoprirono che sezionando le connessioni fra la sostanza reticolare del tronco encefalico ed il talamo (nuclei intralaminari che proiettano alla corteccia), ossia separando la corteccia dalla sostanza reticolare (cervello isolato), compare uno stato permanente di incoscienza (sonno di tipo comatoso) (Fig. 1). Durante il sonno fisiologico la coscienza viene a trovarsi, grazie all’attività del nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo responsabile dell’attività ritmica U (orologio biologico), in una condizione ciclica di lieve, elevata o elevatissima soglia sensoriale (ricordiamo che dalla sostanza reticolare del tronco partono verso il midollo spinale anche vie discendenti della “analgesia endogena”). In altre parole i messaggi sensoriali che il talamo invia alle aree cerebrali, pervengono a circuiti neuronali non più in grado di ricevere normalmente i messaggi nocicettivi refrattari.

la percezione del dolore
Qualsiasi evento, fisico o mentale, che turbi la capacità integrativa della coscienza altera la percezione sensoriale e quindi anche la percezione del dolore. Ad esempio durante la narcosi l’eccitabilità neuronale della corteccia (un’area della coscienza) viene soppressa mediante farmaci (pentotal, ecc) e quindi viene ridotta o annullata la possibilità che i messaggi sensoriali siano ricevuti e integrati.
In altri termini il farmaco rende refrattari i neuroni nei circuiti della coscienza alle stimolazioni sensoriali che provengono dal talamo, cosicché la nocicezione non viene ricevuta ed integrata e l’individuo non percepisce il dolore (analgesia percettiva) (2).
La percezione del dolore può essere alterata, o modulata, anche da eventi mentali. La percezione è diminuita (soglia percettiva aumentata) ad esempio, dalla distrazione, da alcuni stati emotivi-cognitivi stressanti (stress-induced analgesia), dal tono dell’umore (mood-induced analgesia), dalla suggestione terapeutica (placebo). Altri eventi mentali possono invece facilitare la percezione (diminuire la soglia percettiva) provocando o facilitando la comparsa del dolore.
Ad esempio situazioni fortemente emotive, o anche solo il loro ricordo, possono scatenare l’insorgere del dolore quali nevralgie, mialgie, cefalee. Inoltre il dolore può comparire anche in assoluta assenza di ogni stimolo periferico come avviene nel dolore psicogeno o mentale. Scrive Franco Mongini: “È interessante notare che una configurazione simile (configurazione a V psicosomatica, ossia netta elevazione delle scale nevrotiche) è spesso notata in patologie caratterizzate dal dolore cronico, quali la fibromialgia primaria, in cui il fattore psicologico sembra svolgere un ruolo importante. Questo dato è stato da noi confermato in un largo numero di pazienti”. Mongini segnala anche la elevata presenza di alti gradi di depressione e introversione sociale, rivelati mediante MMPI (Minnesota Multiphasic Personality Inventory) nei pazienti portatori di dolori cranio-facciali. Inoltre sono note, ad esempio, gravi sindromi mialgiche diffuse di origine psicogena. Quindi, la percezione del dolore è l’integrazione del messaggio nocicettivo talamico nelle aree cerebrali della coscienza.
Ho cercato di riprodurre tale scenario con la metafora dello specchio (1988). Se una immagine si riflette in uno specchio essa risulterà più grande o più piccola dell’oggetto reale a seconda del verso del raggio di curvatura della superficie dello specchio: ingrandita se lo specchio è concavo, rimpicciolita se lo specchio è convesso. Senso (convesso o concavo) e raggio di curvatura dello specchio sono condizionati da fattori mentali.

il corpo e la mente
Queste brevi considerazioni portano lo studio del dolore nel dibattito cervello/mente. Il cervello fa parte del corpo. Lo possiamo vedere, toccare, tagliare, descrivere in termini di dimensioni, studiare secondo le leggi della fisica classica e relativistica, come il corpo di cui fa parte. Inoltre con l’imaging possiamo vedere quali parti in un data situazione entrano in attività; con le risposte elettriche, le aree che sono funzionalmente collegate. La mente, come oggetto non corporeo, può restare da sola, isolata, senza spazio né tempo, non corruttibile e quindi sopravvivere al corpo?
Ma sopravvive come? Portando con sé il bagaglio di ragionamenti, pensieri, emozioni, ricordi, fantasie, accumulati durante la “coabitazione” nel corpo del defunto? E conservare la memoria? Una metafora che propongo quando mi si chiede la relazione che può esistere tra il cervello e la mente è la seguente. Se dovessimo spiegare l’automobile a qualcuno che non l’ha mai vista dovremmo cominciare a fare un discorso di meccanica classica: leve, ingranaggi, ruote, pistoni, trasmissioni, alberi, valvole, ecc.
Ma poi per spiegare come funziona, ossia come e perché si muove dovremmo parlare della benzina, il che vuol dire abbandonare le leggi della meccanica e passare a spiegare la chimica degli idrocarburi. La macchina da sola non cammina e la benzina neppure. Occorre mantenerli insieme in un certo modo e solo in quel modo. Il risultato è una dimensione legata al rapporto spazio/tempo: la velocità.
Della interazione mente/corpo (argomento su cui la letteratura è sterminata) sono state proposte diverse interpretazioni teoretiche. Richard Gregory (invitato nel 2003 a Spoleto Scienze al dibattito sulla mente) nella sua monumentale enciclopedia Oxford della mente ricorda che il dualismo mente corpo ha assunto svariate forme.

il dualismo cartesiano
La posizione fondamentale, e la più importante nel post-medievale, è quella di Cartesio, che assunse una posizione chiaramente dualista. La concezione cartesiana di res extensa (il corpo) e res cogitans (la mente) sorge da una sua coerenza al discorso sul metodo, il testo che aprì alla scienza sperimentale. “Fin dalla mia più tenera giovinezza – scrive Cartesio – ho concepito lo spirito ed il corpo (di cui vedevo confusamente che ero composto) come una sola e medesima cosa: ed è il vizio quasi ordinario di tutte le conoscenze imperfette di unire assieme molte cose e prenderle tutte per una cosa medesima; ecco perché bisogna dopo prendersi la pena di separarle e con un esame più esatto distinguere le une dalle altre. Subito dopo mi accorsi che, mentre volevo pensare che tutto era falso, era d’uopo necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualche cosa. E notando che questa verità “io penso dunque sono” era così ferma e così certa, che tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici non erano capaci di scuoterla , io giudicai di poterla ammettere, senza scrupolo, per il primo principio della Filosofia, che cercavo”.
“Il dualismo di Cartesio – scrive Edelman nel suo testo Sulla materia della mente (1993, pag. 20) – è perdurato, sotto varie forme, sino ad oggi. Il behaviorismo, per esempio, malgrado la facciata monastica, non è altro che dualismo ridotto dalla negazione che la mente possa essere oggetto di indagine scientifica: quindi dualismo con un’estremità in sospeso […]. Esso ammette che mente e cervello sono emersi da un’unica sostanza, ma poi afferma in modo risoluto che occorre trattare le caratteristiche psicologiche esclusivamente nei termini loro appropriati, che necessariamente differiscono da quelli usati per i corpi e per gli oggetti fisici”. “La coscienza è nata ad un certo punto dell’evoluzione della specie, come caratteristica del fenotipo. Prima di allora essa non esisteva. Questa ipotesi implica che l’acquisizione della coscienza abbia conferito in maniera diretta un certo grado di adattamento produttivo agli individui, oppure che abbia fornito le basi per lo sviluppo di altre caratteristiche che miglioravano l’adattamento […] (p. 177).
Attualmente moltissimi filosofi portati al materialismo accettano la visione centralista, che identifica i processi mentali con processi puramente fisici nel sistema nervoso centrale”. Questa teoria, nota anche come dottrina delle identità, comporta a riconoscere un dualismo di proprietà – scrive Gregory – nel senso che tutti i processi cerebrali, oltre alle loro proprietà fisiche, sono concepiti come dotati anche di proprietà non fisiche, che si suppone trasformino i processi cerebrali in processi mentali” (v. nota 18). Il dualismo behavioristico è pertanto definito dualismo di proprietà.
Dimostrato che il dolore, come evento cosciente, può essere modulato da eventi mentali, assume utilità teorica e didattica il modello dell’interazione tra Mondo1 e Mondo 11 di Karl Popper (cfr. Sala e Tiengo 1996). Un modello filosofico del quale il nobel John C. Eccles cercò il correlato neurofisiologico proponendo la teoria degli psiconi. Gli psiconi (Mondo 2) vennero ipotizzati da Eccles come entità immateriali avvolgenti i dendroni (Mondo 1) formate da qualche centinaio di cellule piramidali (cfr. Sala e Tiengo 1996). Sorge il difficile problema di capire come, attraverso qual modo un oggetto fisico (dendrone) possa comunicare con un oggetto non fisico (psicone).
Dendroni e psiconi comunicherebbero, secondo Eccles, mediante campi di probabilità quantistica (3). Onde di probabilità quantistica sarebbero il modulatore del rilascio di neuro trasmettitori (aminoacidi eccitatori) alla griglia sinaptica dei dendroni. Gli eventi mentali sarebbero in tal modo governati dallo psicone. Tuttavia questa ipotesi, pur affascinante, non è mai stata verificata sperimentalmente.
Alla concezione dualistica (che in un certo senso richiama il concetto cartesiano di res cogitans, la coscienza, e res extensa, il corpo) la maggior parte dei neuroscienziati e dei fisici oppone una concezione unitaria secondo cui la coscienza è espressione diretta del cervello. Tuttavia il Nobel Gerald Edelman (1992), unicista, afferma che “studiare i problemi della mente comporta metodi non adeguati a quelli per fare scienza sul cervello” e inoltre dichiara che il suo obbiettivo “è dimostrare che è scientificamente possibile comprendere la mente”. Per capire la posizione neurofilosofica sulla mente di Edelman voglio citare alcune sue affermazioni. “L’attribuzione della mente al corpo e gli apparenti misteri della coscienza pongono un dilemma che si può risolvere considerando la mente e la coscienza, proprietà dirette della materia”. Dobbiamo tuttavia considerare che, una decina di anni dopo, su queste posizioni teoretiche non siamo avanzati di molto. Edelman così denuncia la sua posizione anticartesiana: “Probabilmente il dualismo cartesiano si dissolverà solo quando si sarà compresa la relazione fra coscienza e fisica”,


“l’errore di Cartesio”
Nel suo brillante testo L’errore di Cartesio, il neurologo Antonio Damasco compie una critica serrata e talora feroce di Cartesio. Egli scrive (p. 138 e seg.) “Cervello e corpo sono indissolubilmente integrati da circuiti nervosi e biochimici che dall’uno puntano all’altro e viceversa […]. Supponete di stare progettando il cervello umano partendo da zero e di avere già indicato, a matita, tutti i porti ai quali dover convogliare i molti segnali sensoriali: non vi verrebbe la voglia di fondare assieme i segnali provenienti da differenti fonti di sensazioni (vista e udito, ad esempio) con la massima rapidità possibile, in modo che il cervello potesse generare “rappresentazioni integrate” di cose viste e udite simultaneamente? […]. Il numero di strutture cerebrali che si trovano tra i settori di ingresso e uscita è immensa e immensa è la complessità dei loro schemi di connessione”.
Ci si può chiedere a che cosa serva tutta questa complessità: a costruire di attimo in attimo ed elaborare le nostre immagini mentali. Dopo queste importanti descrizioni neurofisiologiche Damasco entra nel vivo del problema lanciando la sua accusa a Cartesio reo di avere influenzato e fuorviato per secoli, con le sue idee sul corpo, sul cervello e sulla mente “la scienza e la cultura occidentale”. Scrive Damasco [p.336]: “Quale era, allora, l’errore di Cartesio? O meglio quale errore io intendo isolare senza rispetto né gratitudine?” L’enunciato più famoso di tutta la filosofia, apparso per la prima volta nel Discours sur la méthode (1637) è probabilmente quel Cogito ergo sum che prelude alla separazione netta tra cervello e mente, res cogitans e res extensa, colonna portante del sistema filosofico cartesiano. E proprio da qui parte l’attacco di Damasio, convinto che la mente sia comparsa nell’evoluzione del vivente allorché le strutture cerebrali raggiunsero una sufficiente complessità. “A me provocano disagio – scrive – sia la concezione dualistica per la quale Cartesio scinde la menta dal cervello e dal corpo sia le varianti moderne di essa […]. Eccolo l’errore di Cartesio: ecco l’abissale separazione tra corpo e mente, tra la materia del corpo, dotata di dimensioni, infinitamente divisibile, e la “stoffa” della mente, non misurabile, priva di dimensioni, non divisibile […]. Dire che la mente viene dal cervello è affermazione irrefutabile, ma io credo che sia meglio precisarla e considerare le ragioni per le quali i neuroni del cervello si comportano in modo così ragionevole. È questa a mio parere la questione critica […]. È suggestivo pensare che Cartesio abbia contribuito a modificare il corso della medicina, a far sì che essa deviasse dall’orientamento organico, o meglio organistico (“la-mente-è-nel-corpo”) che era prevalso nel corso dei secoli dai tempi di Ippocrate fino al Rinascimento.
Quanto sarebbe stato infastidito Aristotele, se l’avesse conosciuto […]. Una piena comprensione della mente umana richiede una prospettiva integrata: la mente non solo deve muoversi da un “cogito” non fisico al regno dei tessuti biologici, ma deve anche essere correlata con un organismo intero, in possesso di un cervello e di un corpo integrati e in piena interazione con un ambiente fisico e sociale”.

l’errore di cartesio?
Ho preferito riportare integralmente alcuni brani di Damasio nel tentativo di dare un’idea di che cosa egli intenda per “Errore di Cartesio”. L’accusa che egli muove possiamo collocarla tutta nel famosissimo detto “mens sana in corpore sano” ma inteso non come precetto igienico bensì nel senso di inseparabile correlazione fisiologica e patologica: se il cervello è malato anche la mente lo diventa. E Damasio inizia il suo testo con il caso famoso di Cage (un operaio vissuto alla metà dell’Ottocento, cui un incidente grave sul lavoro aveva mutilato i lobi frontali del cervello e cambiò, in seguito, completamente personalità) e prosegue illustrando casi clinici di propri pazienti che ebbero lesioni anatomiche del cervello a causa di traumi cranici oppure di tumori.
Qualsiasi lesione cerebrale altera la mente. Quindi la mente “è” il corpo. Ed è questa la fondamentale conclusione del neurologo Damasio. Il dolore è un modello eccellente per lo studio neurofilosofico dei meccanismi della coscienza, perché è un modello SI/NO (il dolore viene o non viene percepito, oppure viene percepito di più o di meno). Per questo noi anestesisti abbiamo il diritto e il dovere di occuparci di questa straordinaria ed affascinante tematica.
Noi anestesisti con la nostra maturata esperienza di situazioni divenute a noi famigliari quali la narcosi, il placebo, la stress-induced analgesia, la mood-induced analgesia, il dolore nella depressione, l’ipnosi, possiamo, io credo, portare il dibattito anche su altre frontiere e suggerire, sul problema della coscienza, nuove inaspettate proposte.

Personalmente rimango dell’opinione che il dualismo cartesiano corpo-mente debba essere riconsiderato nella prospettiva dei progressi scientifici raggiunti nel XX secolo e secondo concetti più attuali. Il Novecento è stato ricco di sorprendenti conquiste filosofiche e scientifiche e la meccanica quantistica è fra esse una delle più splendenti(4).
Cartesio visse nel XVII secolo, un secolo prima di Newton e, come ho detto, quando la scienza sperimentale non esisteva ancora è giocoforza che la cultura organizzi comunque, intorno agli argomenti che maggiormente la turbano, delle ipotesi causali compatibili con lo spirito dei tempi ed efficaci.
È possibile che qualcuno agli inizi del prossimo secolo, il XXI, ci proponga una rivisitazione delle teorie neurofilosofiche di Cartesio in chiave moderna.

Un testo che io saluterò e leggerò con estremo interesse e, lasciatemelo dire, anche con grande soddisfazione e divertimento.



“ANALGESIE MENTALI” IL PLACEBO
La più scientifica, conosciuta e studiata condizione fra quelle che io chiamo “analgesie mentali” è il placebo. Pertanto mi dilungherò un pochino su tale tematica. Martina Annunzio, cui dobbiamo insieme a Fabrizio Benedetti, importanti scoperte sulla neurochimica del placebo, nel suo testo sui Meccanismi neurofisiologici e neurochimici della risposta placebo (1995) scrive: “Il primo uso della parola placebo si trova nella Bibbia. La prima parola del Salmo 116,9 in ebraico è ethalekh che venne poi tradotto in latino come placebo, indicativo futuro del verbo placeo, che letteralmente significa “io piaccio”, “sono gradito”[…].
Per quanto riguarda il dolore, si ha effetto placebo quando, somministrando una sostanza che non ha alcun effetto farmacologico (per esempio, una soluzione salina), si ottiene una potente risposta analgesica. Il placebo ha degli aspetti in comune con tutti gli altri farmaci analgesici: ha una cinetica di assorbimento e di eliminazione, ha una curva dose-effetto, esiste un effetto di accumulo e un effetto residuo alla sospensione. Si possono instaurare anche effetti secondari e questo è il punto più sorprendente. Il punto in cui il placebo differisce da tutti gli altri farmaci è l’imprevedibilità della risposta che si aggira sul 35%. Non si ha cioè una sicura riproducibilità dell’effetto. Questo ovviamente rende difficile la ricerca in quanto viene a mancare uno dei presupposti caposaldo della ricerca scientifica, la riproducibilità. È noto – prosegue la Amanzio - che l’analgesia da placebo è mediata dagli oppiati endogeni: questa considerazione deriva dalla scoperta che il naloxone annulla la risposta al placebo. Sia gli oppiati esogeni che quelli endogeni interagiscono in maniera complessa con il neuropeptide colecistochinina (CCK). Per esempio si è visto che l’analgesia indotta da morfina e dalla betaendorfina e dalle encefaline può essere antagonizzata attraverso la somministrazione di un antagonista della CKK, la proglumide. Tutte queste osservazioni suggeriscono che la CKK agisca come un antagonista fisiologico degli oppiati e che, infine, la CKK esplichi un effetto inibitorio sulla risposta placebo”.
È affascinante pensare che tali ricerche abbiano portato ad una scoperta di grande portata: un evento mentale, la suggestione, potrebbe essere modulato da due molecole, potenziata dagli oppiati e inibita dalla colecistochinina. Non so se sia già stato fatto, ma sarebbe molto interessante dimostrare se tale asserto sia valido anche per la suggestione ipnotica.