Anno 3 - N. 7 / 2004


DEL TABACCO

“Un sigaro toscano e una croce di Cavaliere non si negano a nessuno” (Vittorio Emanuele II, Re d’Italia)

… A Berna nel 1661 si giunse, sotto la spinta calvinista, ad aggiungere il comandamento XI al Decalogo “Tu non fumerai”!

di Giulio Cesare Maggi



Fumatori di narghilè al tempio di Amone a Gurnah, Tebe.


Il mio incontro con il tabacco avvenne a Rodi, allora possedimento italiano, all’inizio delle scuole elementari: potevo osservare nei piccoli caffè i fumatori di narghilè o di sigarette di tabacco macedone che venivano vendute in eleganti scatole metalliche, con sopra la croce dei Cavalieri di Malta, a una lira italiana per cento sigarette (non esisteva nel Dodecaneso il Monopolio di Stato).
Tra i fumatori di narghilè vi era mio padre, ed io seguivo estasiato la nuvoletta azzurrina del fumo che, dopo aver gorgogliato nell’acqua profumata del serbatoio di vetro, giungeva freddo in bocca e nei polmoni.
Mi fu consentito una volta di “tirare” una boccata: non ne ho un ricordo né piacevole né sgradito. In quel periodo, eravamo negli anni ’30, molti ricchi egiziani, ancora con il caratteristico fez sul capo, venivano a Rodi per “passare le acque” alle bellissime terme di Calitea, ora cadute in totale abbandono, come ebbi occasione di constatare con dispiacere in anni recenti. Vi andavamo noi spesso in carrozzino con il papà, a prendere il pagotò, lo squisito gelato dei Greci.
In quell’occasione sui tavolini si trovavano spesso scatole vuote di sigarette egiziane, le Khedivé, che mia sorella ed io prendevamo per il piacere di annusare il dolce profumo del tabacco, sicuramente macedone, che a lungo restava imprigionato in quei, per noi meravigliosi, ricettacoli.
Era la nostra piccola droga, assieme allo squisito pagotò al limone o all’arancia, che seguiva gli spuntini di mezé. Era a noi proibito assaggiare, se non qualche goccia dal fondo dei bicchieri, la mastìga o l’ouzo che nell’acqua diaccia formavano nuvolette opalescenti, per noi di gratissimo gusto: ma ahimé, solo qualche goccia e sovente di nascosto.
In tutti i luoghi pubblici e nelle case private si fumava “come Turchi” e ricordo che quando nel 1933 Marconi sull’Elettra ed Italo Balbo con i suoi Savoia-Marchetti reduci dal volo transatlantico, vennero a Rodi in visita ufficiale, restai impressionato dalla nuvola di fumo che circondava i due personaggi. Con Italo Balbo, in compagnia di Elettra Marconi con la sua “Miss” inglese ed altri ragazzi, facemmo un giro dell’isola in idrovolante e fu quella la mia prima esperienza di volo.
Ma ritorniamo al nostro tabacco.
Non vorrò certo contestare (da quarant’anni non sono più neppure il modesto fumatore del passato), come medico, i danni del fumo, contro il quale la classe medica e qualche saggio governo lottano per verità con alterne fortune: ne sono assolutamente convinto e non posso che associarmi alle lodi che vengono fatte al corpo medico inglese che da anni si astiene dal fumo e che ha visto, nelle proprie file, cadere in modo altamente significativo la percentuale di ammalati di bronchite cronica, di carcinoma polmonare nonché, se pure in misura minore, di malattie cardiovascolari.
In un gustoso opuscolo di certo Alfonso Baldi, nella Raccolta di Letture scientifiche popolari in Italia (Milano, Treves, 1869) del costo di cent. 25 di lira la copia, l’autore, cultore di scienze naturali, non poteva ignorare, in un periodo nel quale il commercio diventava o tornava ad essere una “religione dei popoli”, il fatto che il tabacco costituiva “una delle più attive sorgenti di ricchezza, tale da risolvere gli stessi Governi a prenderlo a base di un’imposta assai produttiva o a farne, non so se più ingiusto che indecoroso, monopolio”.
Siamo a pochi anni dalla proclamazione del Regno d’Italia e la capitale è ancora Firenze: la patria – non dimentichiamolo – del sigaro toscano, già celebrato prodotto delle manifatture del Granducato, sigaro del quale Vittorio Emanuele II pare abbia detto: “Un toscano ed una croce di Cavaliere non si negano a nessuno”. A distanza di 130 anni le cose – anche in regime repubblicano – non vanno in modo troppo diverso: e non solo in casa nostra.
Torniamo al tabacco: dice il nostro naturalista “Se la scoperta dell’America non rese i popoli europei più felici o più saggi, sarebbe ingiusto non convenire che aumentò di gran lunga i loro materiali piaceri”. L’autore cita, anche a sproposito, il caffè e lo zucchero, ma certamente giusti sono il cacao, la patata, il mais, il pomodoro, il chinino ed infine il tabacco.
Sicuramente noto a Colombo, che ne vide fumare le foglie seccate ed arrotolate agli indigeni delle Antille, le informazioni su questa pianta e sul suo strano uso si devono al frate italiano Pietro Romano Pane, compagno di Colombo nel primo viaggio “alle Indie”, e un marinaio di Colombo, certo Sanchez, fu il primo europeo a provare il piacere del fumo ad imitazione di quanto facevano gli indigeni. All’inizio del Cinquecento Cortés portò qualche pianta di tabacco in Spagna, ma la vera introduzione si ebbe nel 1559 ad opera del medico di Filippo II, Hernandez de Toledo il quale importò le prime varietà per coltivarle nei giardini reali.
In Inghilterra il tabacco fu noto dal 1570, secondo quanto riferisce Sweet (Horti britan., 1570), ma l’uso di fumarne le foglie secche è del 1586, sulla base delle notizie date dal navigatore Drake: nel 1614 si sarebbero contati a Londra oltre 7000 “tabaccai”.
Jean Nicot, l’ambasciatore francese alla Corte del Re di Spagna è ritenuto aver introdotto il tabacco in Francia, anche se molti pensano che il merito spetti al naturalista André Thevet: porta il suo nome la Thevetia rotundifolia, il cui alcaloide, la tevetina, fu usato verso il 1950 quale cardiocinetico, droga poi scomparsa dall’uso terapeutico. Il nome di Nicot restò così legato all’esotica pianta, denominata dai botanici Nicotiana tabacum: da questo secondo nome quello di uso volgare che deriva, sembra, dall’isola di Tabago (oggi più frequentemente Tobago) nelle Antille minori, ove la pianta fu scoperta per la prima volta. Secondo altri, ma è meno probabile, il nome deriverebbe dalla provincia di Tabasco, nel Messico, ove sono estese piantagioni di tabacco.
Nicot presentò la pianta a Caterina de’ Medici, la quale, soffrendo di atroci cefalee e venendo a conoscenza che gli indigeni assumevano infusi di tabacco contro il mal di testa, l’utilizzò per prima in Europa come medicamento, pare con qualche vantaggio. Sicché la Nicotiana fu in Francia chiamata l’erba della Regina.
Coltivato fin dal 1500 nei giardini vaticani quale pianta ornamentale, il tabacco fu introdotto verso il 1573 in Toscana da Alfonso Tornabuoni Vescovo di Borgo San Sepolcro che aveva ricevuto i semi dal nunzio apostolico a Parigi Card. Nicolò Tornabuoni, suo zio. Si iniziò così la coltivazione nella Libera Repubblica di Cospaia, vicino alla città dalle due Torri, Borgo San Sepolcro, e così fu chiamata erba tornabuona. Sappiamo che in Toscana, specie sotto i Lorena, si sviluppò una vera e propria industria manifatturiera del tabacco, il cui prodotto più glorioso e celebrato, ancor oggi ed anche all’estero, è il panciuto sigaro toscano, divisibile a metà, da qui il mezzo-toscano. È oggi prodotto solo ad d’uso dei deputati e senatori della Repubblica.
Nello Stato Pontificio la pianta fu chiamata erba Santa Croce, in onore del cardinale legato che la portò a Roma nel 1585.
Erba del gran Priore fu anche denominato il tabacco in onore di Francesco de’ Medici, figlio di Caterina, poi Re di Francia con il nome di Francesco II.
I medici ritennero già dai primi del Seicento che il tabacco fosse dotato di proprietà terapeutiche, non solo contro la cefalea, ma anche, somministrato per suffumigi intestinali, contro le malattie soprattutto del colon, con presunti effetti anche sistemici.
Ma accanto ai medici prendevano posizione anche i teologi che in alcuni Concilî sinodali (Lima 1588, Città del Messico 1589, Firenze 1645) si ponevano il quesito “se l’uso del tabacco interrompa il digiuno”. Con una bolla del 30 gennaio 1624 di Urbano VIII, a conferma del parere espresso dalla Sacra Congregazione dei Concilî in Roma, ripresa a sua volta nel 1691 da Innocenzo XII, fu proibito agli ecclesiastici l’uso del tabacco.
La proibizione di fumare per i sudditi fu decretata da Abbas, Sciah di Persia (1590), da Amurat IV, sultano di Istambul (1621), da Luigi XIII, Re di Francia (1630), da Michele Fedorovic, Zar di tutte le Russie (1634), e dal Senato di Strasburgo (1719): in qualche caso la pena comminata era quella di morte.
A Berna nel 1661 si giunse, sotto la spinta calvinista, ad aggiungere il comandamento XI al Decalogo “Tu non fumerai”!
Irriducibile nemico del tabacco fu re Giacomo I (1566-1625), che denunciava “questa deplorevole abitudine, disgustosa per gli occhi, sgradevole per il naso, pericolosa per il cervello, di- sastrosa per i polmoni”. Tanto che promulgò un decreto contro il fumo: pare che lo avesse fatto anche perché gli importatori erano spagnoli, suoi acerrimi nemici. Ne scaturì una pesantissima tassa sul tabacco, che contribuì notevolmente alla coltivazione clandestina della pianta. Giunse Giacomo I a far pubblicare un opuscolo contro l’uso del tabacco, diffuso nel 1604: “Il tabacco è la viva immagine e modello dell’inferno (…), vale a dire: primo è fumo, e tali sono le vanità di questo mondo. Secondo, delizia chi lo prende, e cosí i piaceri mondani deliziano l’uomo mondano. Terzo, inebria e svuota la testa, e così fanno le vanità del mondo di cui l’uomo si ubriaca. Quarto, colui che prende il tabacco dice di non poterlo lasciare, di essere stregato: e allo stesso modo i piaceri mondani fanno l’uomo restio a lasciarli, tanto ne è incantato. E, oltre a tutto questo, la sua materia prima è come l’inferno, perché è maleodorante e disgustosa, e cosí è l’inferno” (da Brian Inglis, “Il gioco proibito. Storia sociale della droga”, Milano, Mondadori, 1979).
A comprova di quanto siano utili e seguite le leggi imposte contro il senso comune (tanto allora come oggi) la diffusione della pianta del tabacco e l’uso del fumo furono progressivi in tutto il mondo, con ricadute non solo igieniche ma anche sociali. Come ogni cosa proibita all’uomo, anche il fumo di tabacco si è andato espandendo con straordinaria rapidità. Persino negli Stati della Chiesa intorno al 1570 per spinta dell’abate Grass, Generale dei Silvestrini, si consentì l’uso del tabacco, ovviamente ai non ecclesiastici. La completa liberalizzazione avvenne ad opera di Benedetto XIII nel 1724.
Lodato da Molière e da Byron, il fumo del tabacco riuscì persino a far meditare il Barone di Verulamio Bacone, sicché alla fine caduta ogni irragionevole preclusione nei suoi riguardi, il tabacco per converso divenne oggetto di interesse vivissimo per il fisco di tutti o quasi i Paesi d’Europa, sotto forma in genere di monopolio di Stato: in fondo perché non tassare un “artificiale bisogno”?
La Nicotiana tabacum appartiene alla famiglia delle Solanacee: le sue foglie, di color verde intenso, presentano ricche venature. Varie sono le specie e varietà del piccolo arbusto, una pianta annuale, di cui venti specie costituiscono la tribù delle Nicoziacee: quattro o cinque di queste sono le più usate per confezionare sigari e sigarette.
Senza entrare nei dettagli della composizione chimica del tabacco, ricorderemo solo che l’alcaloide di base è costituito, in percentuali variabili (3-6%) a seconda del tipo di tabacco, dalla nicotina, estratta nel 1828 dai chimici Reimann e Posselt di Heidelberg. L’alcaloide è di notevole tossicità, ma fortunatamente la quantità inalata per singola boccata viene assai rapidamente degradata dall’organismo umano.
La confezione del tabacco fu in sigari e tabacco da fiuto, il rapé di buona memoria, importato dai Francesi nel nostro Paese con l’arrivo di Napoleone nel 1796: dall’uso del rapé il nome di tabacchiera anatomica, l’avvallamento che compare con la massima abduzione del pollice, tra il primo ed il secondo metacarpo, usato per deporvi il tabacco da fiuto.
Anche se già in Spagna nel Seicento i poveri fumavano i mozziconi dei sigari dei signori, avvolgendoli in una foglia di tabacco, realizzando così una specie di sigaretto, fu da Oriente che arrivò un’innovazione rivoluzionaria: nel 1832 i soldati musulmani di Ibrahim Pascià, durante l’assedio di San Giovanni d’Acri, cominciarono ad infilare del tabacco nei cilindretti di carta in cui veniva conservata la polvere da sparo e ad accenderli. Inventarono così la sigaretta, che arrivò in Italia nel 1857, nelle tasche dei reduci della spedizione di Crimea.
La vera diffusione della sigaretta o spagnoletta si ebbe in Europa all’epoca della guerra Ispano-Americana. All’inizio fu il modo di fumare delle “suffragette” e poi delle dame, ma ben presto, soprattutto per la praticità, le sigarette ebbero un successo incredibile, preferite anche dagli uomini giovani rispetto al sigaro.
Nulla si dirà qui del fumo con la pipa, argomento che merita un discorso a parte: il fumo con la pipa, usato già nel Cinquecento da Inglesi ed Olandesi, è una filosofia di vita, da lasciare ad un competente, fumatore convinto, il quale sicuramente sdegnerà la definizione di “arnese” che alla pipa riserva il pure attento dizionario dello Zingarelli.
Si ponevano naturalisti e medici della seconda metà dell’Ottocento, ormai orientati verso i problemi sociali della medicina, la domanda: “l’uso del tabacco è dannoso all’umano organismo?”. Pensavano essi, anzitutto ai lavoratori delle manifatture del tabacco, in prevalenza donne e ragazzi: il Direttore Generale delle Manifatture del Tabacco di Francia, Visconte di Simeone garantiva che nessun danno veniva a quei lavoratori, ma come credergli?
Diceva nel 1843 il noto igienista Paolo Mantegazza: “L’uso moderato e sapiente è però necessario all’uomo nello stato attuale della civiltà, e lo sarà sicuramente finché non sorga l’aurora di tempi migliori”. Ed il buon naturalista Baldi, malgrado tutto, è possibilista: “L’avvenire veduto dopo una tazza di moka attraverso il nuvolo azzurrino di un zigaro avana prende tinte più brillanti e più liete”.
Santa ingenuità, legata anche al fatto che la spettativa di vita era in quel periodo di 40-45 anni al più. Persino Cecov, medico oltre che uomo di teatro, scrisse un ironico atto unico “Dei danni del fumo” (1903).
Sui danni indiscutibili del fumo a livello dell’apparato respiratorio e su quello cardiovascolare, incluso il circolo cerebrale, non si ritornerà qui a ripetere quanto le statistiche epidemiologiche hanno chiaramente dimostrato.
L’attenzione va piuttosto spostata sul problema della dipendenza dal fumo, il vero punto centrale: la quale dipendenza sarebbe, secondo accurate ricerche, in stretta relazione con i periodi non solo bellici, ma anche di tensione internazionale e sociale, fattori di incremento sia del consumo sia della dipendenza. L’O.M.S. ha più volte indicato i danni da fumo come una “nuova epidemia” con 90.000 decessi correlati ogni anno in Italia e oltre 3 milioni nel mondo.
È fin troppo evidente che il costo economico – per tacere di quello imputabile alle sofferenze dei malati e delle loro famiglie – è enorme e che ogni sforzo dovrebbe essere fatto dai singoli e dagli Stati per ridurre, se non abolire, questo vero e proprio flagello.
In una sua lettera aperta allo European Respiratory News (11, 55-57, 2003), Remo Lodi stigmatizza il fatto che “In Italia la cultura antifumo è ancora enigmatica sia a livello della scuola che in sede universitaria e sociale”.
Al che non basta opporre la sia pur comprensibile reazione dei coltivatori di tabacco fino a ieri sovvenzionati dalla Comunità Europea: sono a rischio infatti 130.000 posti di lavoro, tanto più se si considera il costo economico e sociale dei danni del fumo ed il fatto che il 70% dei fumatori desidererebbe rendersi libero dalla dipendenza tabagica.
Detto tutto ciò, senza scomodare Freud, del resto accanito fumatore di sigari, né Platone con il suo desiderio di “guarire la natura umana”, lasciamo a ciascuno di ricercare ed esercitare quella rara merce che è il senso comune, o meglio, il buon senso.